Risaliamo il corso del tempo fino al lontano anno 1971.
Siamo in una fase della storia del rock in cui tutto sembrava ancora possible. Che la Germania potesse essere l'avanguardia del rock. Che uno dei migliori esponenti di quello che poi sarà chiamato Krautrock avesse come cantante (cantante?) un giapponese di nome Suzuki raccattato per le strade di Colonia. Che follia e razionalità potessero convivere pacificamente fianco a fianco nello stesso disco. Che la musica potesse essere cosí visionaria e anticipatrice da essere ancora attuale piú di trent'anni dopo (attuale? O forse talmente inattuale da essere già fuori moda, oltre le mode e perciò imperitura).

Ecco che affiora dunque Tago Mago, doppio vinile composto solamente da sette tracce (tracce anche nel senso di segni, testimonianze):

1. Il rock ancora dolce e sognante di "Paperhouse";
2. Il battito ossessivo e le urla di "Mushroom";
3. Il lento e maestoso incedere di "Oh Yeah", vero capolavoro dell'album;
4. Il ritmo funky-ipnotico di "Halleluhwah": 18 minuti di variazioni su un unico tema ritmico, quasi primitivo/primordiale;
5. Il delirio assoluto di "Aumgn", lunghissimo pezzo sperimentale fatto di effetti, rumori e echi;
6. Le intuizioni geniali e le cadute di tono di "Peking O", ideale colonna sonora di un manicomio;
7.Il ritorno alla relativa calma di "Bring Me Coffee Or Tea".

Tuttavia Tago Mago è un opera che va al di là dei suoi espisodi particolari. È ricerca a 360 gradi, sperimentalismo nel senso buono. Insaziabile nel suo muoversi verso nuovi orizzonti, nel superamento di frontiere.
Per questo richiede anche una certa pazienza e attenzione da parte dell'ascoltatore che deve esser pronto a perdonare qualche eccesso, tipico soprattutto della seconda parte del disco.

Sarà ricompensato dalla (ri)scoperta di un classico.

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