Sorvolando su di un loro insopportabile album natalizio di inizio millennio, realizzato cavalcando la tipica abitudine tutta americana di dare sempre nuova veste ad alcuni traditional musicali riguardanti le feste della natività, l’epitaffio della storia dei 38 Special si concretizza effettivamente nel 2004, con quest’opera finale in studio.

Tanta acqua è passata sotto i ponti, il rock dei 38 Special è definitivamente diventato classico, e loro una qualche specie di dinosauri, altrimenti detta band di culto, la quale riesce a fatica a pubblicare quest’ultima cosa, appoggiandosi alla inevitabile etichetta indipendente, seppure fra le più prestigiose.

Il disco è massacrato, per quanto mi riguarda, dalla ricerca di sonorità attuali, cioè brutte, allo scopo di dare una patina di alternativo al rock blues sin lì potente, elegante, preciso e swingante dei nostri. In particolare la ripresa sonora e lo stile di accompagnamento della batteria sono qualcosa di odioso: tutto piatti compressissimi e perciò distorti, i quali invadono, infestano lo spettro delle frequenze acute ammazzando il tiro, il drive della musica.

Spariti pure i caldi e rotondi, insieme che possenti, amplificatori Peavey, i quali sin lì avevano assistito alla grande le evoluzioni chitarristiche di questa dotata band. Al loro posto gli zanzarosi, slabbrati Mesa Boogie mutuati dall’heavy metal. ‘Sti Mesa… una di quelle sbornie collettive degli addetti ai lavori che mi è sempre rimasta sul gozzo.

Alla batteria stragonfia come un ciambotto (cit. marchigiana per rospo) ed alle chitarre con una voragine nei medi, tutte superbassi + superacuti e quindi inespressive nelle frequenze centrali per cui esse sono state concepite, quelle che l’orecchio umano gradisce, discerne, accoglie nelle minime sfumature, si aggiungono le voci urlate di cantanti incapaci di esprimersi in quel modo forzato; e quindi goffi, fuori contesto.

La perdita di agilità e classe per uniformarsi al modaiolo post rock, nu metal, alternative o quello che è, quello pieno di echi, botti, tonfi e di farraginoso rotolare della musica, toglie molto e non aggiunge niente al loro talento. Pure al loro destino però, non riuscendo quest’album ad intercettare nuove e giovani legioni di appassionati, risultando perciò uno spiacevole canto del cigno giocato in trasferta, su terreni non familiari.

The Play” è l’unica ballata e forse pure il vertice di questo disgraziato lavoro. Il suo stile è quello post grunge, roccioso, nodoso, pestato, psichedelico ma, vivaddio, c’è melodia, c’è un chiaro gancio nel coro di ritornello, seppure disturbato da una specie di festival dell’effetto tremolo, tanto per essere di moda.

In qualche modo il disco migliora andando verso la sua fine e si guadagna per strada la seconda stelletta, se non altro. La penultima “Hiding from Yourself” è per esempio un numero telefonato ma valido, dinamico con quei suoi stop&go, contro cori, il ponte a variare… tutte le cosine arricchenti al loro posto, una volta sopportata la batteria offensivamente caciarona.

Anche la finale “Sheriff’s County Line”, atmosferica e sostanziosa armonicamente, trasmette la sensazione di un disco che prende quota mano mano che va avanti; peccato però che a quel punto sia giunto al termine. Le chitarre si erano appena fatte un minimo suadenti, ammiccanti, ad accogliere un campanaccio sgarbato pronto a lanciare una seconda parte di brano su di un tempo più serrato. E’ questo l’unico, oltreché ultimo, timbro di chitarra elettrica profondamente bello per i 38 Special, una volta principi del suono di chitarra. E quindi mi ricredo: il vertice dell’album sta qui, nel suo finale, e non nella ballad “The Play”.

Magra consolazione poiché l’album è insufficiente, segnato dal suo goffo tentativo di attualizzarsi e rinfrescarsi(?), cercando di intercettare certi generi in voga, in ogni caso deboli per quel che vale il mio parere. Due stelle di rimpianto, e finish.

Il gruppo ancora gira per gli States, perpetuando quel pugno di grandi album degli anni ottanta davanti ai loro fedeli e appagati fans, senza osar di uscire sul mercato con altro che qualche disco dal vivo, ogni tanto. Donnie Van Zant però da qualche anno se n’è andato via, lasciando come unico superstite della formazione originaria il buon Don Barnes, croce e delizia di questa banda. Una prece, a lui e a loro.

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