La reazione dei 38 Special al buco nell’acqua compiuto col precedente album “Strenght in Numbers” è sorprendente e tutto sommato positiva. Se ne va (per qualche tempo) il musicista sin lì più in evidenza ovvero Don Barnes, attratto da una carriera solista che peraltro non si concretizzerà mai. Al posto della sua chitarra, della sua voce, della sua vena compositiva ultimamente annacquatasi arriva un tizio del tutto diverso che si piazza… alle tastiere! Una novità per il gruppo.

Lui si chiama Max Carl ed il suo stile non ha proprio niente del rock sudista e invece molto di quello melodico, quasi AOR. Del resto lui è originario del Nebraska, una landa dove cadono metri di neve in inverno, altro che campi di cotone e coccodrilli nei fiumi come a Jacksonville. E’ decisamente un tenore, con un notevole timbro melodioso ma forte, dalle parti di uno Steve Perry (Journey) o Dave Bickler (Survivor), imponendo subito le sue credenziali compositive, firmando da solo o in compagnia sette delle undici tracce e cantandone sei.

Fra cui una ballatona paracula intitolata “Second Chance” che non ha niente, ma proprio niente degli abituali 38 Special ma è melodiosamente puttanesca, col suo ondeggiante tappeto di tastiere e il suo rotolio ritmico da primo bacio fra i protagonisti in un film romantico. Infatti va in classifica di brutto negli USA, rilanciando il gruppo anche se in un ambito musicale e di pubblico completamente diverso da quello loro “canonico”, facendo storcere il naso ai propri sostenitori della prima ora.

Peraltro il disco viene aperto dalla voce maschia di Van Zant e non succedeva dai primi album, ben dieci anni prima. La canzone di avvio intitola tutto il lavoro ed è un valido… rock’n’roll ovviamente, anche se un pò contaminato da qualche sintetizzatore. Ma le chitarre abbaiano all’uopo e il cantato, pur ripetitivo, è pertinente e penetrante. Suono, stile e missaggio della batteria fanno ribrezzo ma questo salta alle orecchie col senno e l’orecchio di poi; al tempo l’elettronica aveva invaso il settore percussioni e ci si faceva meno caso. Anche il comparto chitarristico però risulta adulterato: effetti di chorus, flanger e phaser si sprecano ed imbrattano assai l’usuale perfetto lavoro di Jeff Carlisi sulle sue Gibson.

Si nota perciò il piacevole ritorno degli assoli di chitarra, sempre concisi ma compatti e ficcanti, col suono giusto quando non è troppo effettato. Nel precedente disco erano in effetti completamente mancati. Aleggia ancora, anzi sempre di più, una certa frivolezza negli incisi, nei cori. I sintetizzatori spernacchiano sonori a rinforzare le chitarre e talvolta a sovrastarle. Ma è ancora e sempre rock, anche se più leggiadro e ancor meno sudista. Se non altro vi è (non sempre, talvolta) consistenza compositiva, Max Carl ha la sua vena e il suo perché.

Suggestivo l’arpeggio chitarristico, sapientemente bagnato di chorus, sotto le strofe di “Never Be Lonely”; peccato che scada nell’ordinario nel ritornello. Il riff di chitarra migliore arriva però verso la fine, all’attacco di “Innocent Eyes”: che figata! Come ci sta bene, sostenuto dal pedale del basso… come cacio e pepe! Da sentire a tutto volume, e più in là c’è pure il duello botta e risposta fra i due chitarristi (il posto del defezionario Don Barnes è stato preso da Danny Chauncey).

E’ un album bipolare: rock’n’roll para-sudisti, pilotati dallo strascicato accento della Florida di Donnie Van Zant, alternati puntualmente ad hard-pop intonati dalla tenorile emissione del nuovo venuto. L’album è ibrido, un po’ bastardo come il precedente, loffio “Strenght in Numbers”, ma rispetto ad esso ha più forza compositiva. Metà dei pezzi funziona. Il resto son riempitivi, d’accordo.

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