Un'opera va giudicata, in assoluto, collocandola nel contesto in cui nasce e, solitamente, senza valutarne o conoscerne l'autore. Ciò che viene trasmesso, prescinde inequivocabilmente da colui che fa in modo che ciò avvenga (le persone se ne vanno, ciò che hanno lasciato permane, o meglio può permanere). "The Destruction of Small Ideas" è un capolavoro. Poco importa che, per loro scelta, le geniali figure che lo hanno dato alla luce, se ne stiano in disparte, rivelando pochissimo delle proprie personalità.
Conoscete i lavori precedenti, "The Fall of Math" e "One Time For All Time"? Vi aggradano? Spiacente, non è assolutamente scontato che sia così anche per l'album suddetto.
Quell'inconfondibile vena noise, intrisa di elettronica di matrice Aphex Twin, momentaneamente abdica, seppur non totalmente, aprendo le porte a sperimentazioni e atmosfere che coinvolgono e talvolta sconvolgono. Stravolto in più di una circostanza lo schema tipico "lento-crescendo-esplosione", costante del gruppo inglese (Sheffield, per la precisione), ai puristi sembrerà quasi di trovarsi di fronte ad una sorta di blocco, emotivo, espressivo e stilistico, ma non è così. Le composizioni sono più mature, ragionate, e mirano a creare sensazioni opposte rispetto al passato. Aggressività, rabbia, miste ad un tocco (consistente) di pathos e sofferenza esistenziale, permangono si, ma in secondo piano.
Malinconia, forte senso di malinconia. Ecco ciò che emerge dall'album. "White Peak/Dark Peak" è il paradigma della svolta, elettronica dark, le tastiere rispondono presente, tormentate tentano la risalita, ma l'ascesa è effimera.
Che dire di "Don't Go Down To Sorrow"? Forte senso di isolamento, di una ricerca interiore che si perde negli oscuri canali della mente. Interessante perché il sussurro iniziale compie un'evoluzione sfociante in sonorità che, pur dure e martellanti (ottimo il lavoro di batteria, assai "progressivo"), mantengono un senso di staticità, quasi ancorate al fondo, impossibilitate a scoprirsi totalmente. "Primer" è un brano d'altri tempi, di manifesta ispirazione Mogwai, assai particolareggiato e attenzione, forse non immediato, ma una volte colte tutte le sfumature, di forte impatto. Rende insomma, e molto. "A Failsafe" sembra invece riprendere lo stile passato, ripercorrendo uno schema metrico e musicale speculare a "Retreat! Retreat!", restando nei fatti un'eccezione. Molto presenti le tastiere (mai così incisive in un album nel suo complesso), chitarre distorte, assolo di batteria nella sezione finale, accompagnato dai synth che viaggiano a meraviglia.
Menzione speciale i sette minuti di pura sperimentazione elettronica "The Conspiracy of Seeds", tempestata di elementi tutt'altro che affini, ma che, udite udite, risultano omogenei, lineari, perfetti. Apertura d'archi, a ruota la batteria a scandire il tempo, entrano in scena chitarre e tastiere, un climax che culmina nel più inaspettato "scream" (sono sobrio, lo giuro...), accompagnato dal parlato e cantato (femminile), uno scambio da brividi, che toglie il respiro, annebbia la vista. Personalmente, il capolavoro della band: coniuga, a tutti gli elementi passati, innovazioni di classe, indovinate, molto emotive. Un brano che atterrisce, scardina, tortura come pochi, pochissimi se ci rivolgiamo alla scena post-rock. Applausi.
Un gruppo che, in barba alla dirompente mentalità "panem et circenses", offri al pubblico ciò che il pubblico si aspetta da te, riesce di volta in volta a stupire, ad apportare novità, mantenendo intatta (forse incrementando) la qualità del prodotto. Gran disco insomma, difficilmente collocabile. "Avant-post", se mi si concede il neologismo.
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