Prima di parlare dell'album vero e proprio, bisogna che provi almeno a dare una vaga spiegazione del genere suonato da questi 65 Days Of Static, giovane band di Sheffield messasi in mostra negli USA con l'EP "Stumble.Stop.Repeat" del 2003. Si tratta di un collage sonoro che assorbe in sé particelle sonore non proprio strettamente correlate tra di loro: sono presenti schegge della malinconia post-rock dei Sigur Ròs, stralci dell'elettronica mutante di Aphex Twin, spruzzi di grunge/noise invero mai troppo ostili (versante Nirvana più che Sonic Youth) e un'attitudine jazzistica che fa capolino soprattutto da certe intuizioni percussive. L'insieme è abbastanza suggestivo da far venire l'acquolina in bocca, e sebbene i quattro boys inglesi (Paul Wolinski alla chitarra e al sampling, Joe Fro alla seconda chitarra, Gareth Hughes al basso e Robb Jonze alla batteria) non abbiano costruito un nuovo capolavoro davanti al quale, tutti, prima o poi, dovranno genuflettersi, sono riusciti a costruire un disco che partendo da una miscela intrigante ha costruito un album piacevole da ascoltare e quasi mai noioso.

Languori elettronici si alternano a scoppi chitarristici e percussivi di drammatica intensità, per poi placarsi in lunghe trance dove a regnare è il quasi-silenzio rotto solo da intermittenti "blip" tastieristici e da campionamenti cinematografici (persino uno da "Singles" di Cameron Crowe in "Retreat! Retreat!"). Mi sembra superfluo analizzare l'album traccia per traccia, molto più utile a mio avviso è valutarne l'alta emotività espressa in atmosfere che, insieme all'artwork, sembrano voler rendere in musica il doloroso periodo dell'adolescenza: da qui una certa schizofrenia nelle atmosfere dell'album che talvolta regala momenti di noia, attimi in cui la band sembra incerta sulla direzione da intraprendere e sui toni da assumere. Si tratta ad ogni modo di passaggi sporadici, per la maggior parte del tempo rabbia, malinconia, apatia e rimpianto si alternano in un quadro sonoro fatto della più sofferta e introversa "teenage angst" (in effetti non so perché collego mentalmente quest'album a Kurt Cobain) conferendo al disco un tono poetico e talvolta surreale. Il vero pregio della band, ad ogni modo, sta nel donare ad una musica che in mano ad altri musicisti meno dotati sarebbe diventata musica di sottofondo una qualità psicologica che la rende apprezzabile e degna di nota.

Ripeto: non sempre il fiume scorre come dovrebbe. Ma è proprio un bell'album, e mi sento di consigliarlo spassionatamente a chiunque apprezzi le atmosfere dilatate del post-rock. E poi, che nome strano, ragazzi. Spero non si ricordino di loro solo per quello, sarebbe davvero un peccato.

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