Questo film non alza mai gli occhi al cielo. Letteralmente. La telecamera è come appesantita dall'intima tragedia del signor Badii, custode di un museo di Teheran, che s'aggira sul suo Range Rover per la periferia , polverosa e collinare, della grande città iraniana nella speranza di trovare qualcuno che getti poche vangate di terra sul suo corpo, una volta che si fosse suicidato. Il signor Badii vuole suicidarsi imbottendosi di psicofarmaci, si è scavato una buca sul fianco di una collina e lì inghiottirà, di notte, il mix letale di medicine. Terrorizzato dall'idea che gli uccelli possano far scempio del suo corpo, pagherebbe -bene- chiunque perchè il mattino dopo si rechi sul posto, lo chiami due volte ad alta voce e lo aiuti ad alzarsi se vivo o lo copra di terra se morto. Tre persone ascoltano la sua preghiera: un giovane soldato curdo, ma fugge via subito spaventato; un seminarista afghano, ma si rifiuta di farlo enumerando, con voce odiosamente distante, i precetti religiosi che proibiscono di togliersi la vita; e infine un tassidermista turco che lavora per il locale museo di scienze naturali, che lo ascolta e gli racconta che anche lui un giorno decise di farla finita ma "il sapore della ciliegia" (e tutto quanto si nasconde sotto questo simbolo) lo trattenne dal compiere il gesto. Badii sembra però sempre saldo nella sua decisione e le parole del turco gli suonano inutili e snervanti: vuole solo sapere se accetterà l'incarico e lo seppellirà. Il turco accetta ma le parole, bellissime, che ha avuto per dissuaderlo dal gesto sembrano ora aver scosso l'animo di Badii . Dei motivi che ha Badii per suicidarsi non sapremo niente, abbiamo solo il suo volto a testimoniare una apatia che sembra non dare scampo. La telecamera, scesa la notte, segue Badii nei suoi ultimi movimenti: va a casa (ma la telecamera resta fuori, inquadrando solo l'ombra che si muove dietro le tende), ne esce, sale in macchina e si reca in collina, lì dove ha scavato la buca. Vi si sdraia e aspetta. Intanto cala la notte, buia e tempestosa (chiedo umilmente perdono ma tant'è), e solo il bagliore di qualche lampo illumina il suo viso. La schermata si fa nera. E' morto o no? Non lo sapremo mai. Ai titoli di cosa, si alternano immagini del backstage, con il regista che dirige, l'attore protagonista che si riposa all'ombra di un albero, la troupe che lavora, le comparse che ridono e si mettono in mostra, il tutto sulle note del St. James Infirmary Blues con voce e tromba di Louis Armstrong.  

Film cupo, simbolico, "noioso" direbbe qualcuno eppure sincero, trasparente, indimenticabile. Kiarostami, che ha dichiarato il proprio debito nei confronti di Rossellini e del neorealismo italiano, ha ottenuto con questa pellicola la Palma d'Oro a Cannes. La domanda che mi faccio è: se un regista, con pochissimi mezzi, ha realizzato un film che è un capolavoro memorabile, che inquieta e fa riflettere, i presunti capolavori di registi che, pur talentuosi, hanno avuto libera decisione, budget illimitato, benevolenza universale gli sono inferiori o superiori?


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