Cala Gonone è una località turistica della costa orientale della Sardegna ed ogni estate vi si svolge uno dei festival internazionali più importanti dell'isola, che in passato hanno visto la presenza di artisti come Pat Metheny e Chick Corea.
Quest'anno il nome certamente più prestigioso della rassegna era indubbiamente quello del pianista Abdullah Ibrahim. Noto anche come Dollar Brand - ha cambiato nome dopo la sua conversione all'Islam - questo musicista sudafricano rappresenta, infatti, una parte significativa ed affascinante del jazz.

Nato a Cape Town nel 1934, ha costruito il suo prestigio in ragione di una lunga carriera iniziata verso la fine degli anni '50 in Sudafrica, dove incontrò mille difficoltà dovute non solo alla sua etnia, ma anche al fatto che il jazz era una musica proibita. Dovette allora riparare in Europa ed in seguito, con l'aiuto di Duke Ellington, che ne notò le qualità, negli Stati Uniti. Quindi, solo dopo la fine dell'apartheid riuscì a ritornare ad esibirsi liberamente nella sua terra.
Per questa sua particolare storia nella sua musica si ritrovano, dunque, influenze diverse: dalle matrici della canzone americana, ai ritmi africani, alla cultura islamica. Apprendere allora che l'unica esibizione italiana in trio di questo particolare musicista era toccata a questa piccola località per essere riservata a pochi fortunati mi ha sospinto a macinare 200 km per ascoltarlo.

Verso le 21.45 il nostro fa il suo ingresso sul palco. Colpisce la sua presenza scenica: indossa una lunga tunica nera, ha un'espressione rilassata, uno sguardo magnetico, si muove con lentezza e sembra che cammini su una nuvola mentre si avvicina al suo pianoforte. Rotto il silenzio il concerto comincia sviluppando da subito il presentimento di una serata particolare. Nel giro di pochi minuti si crea un'atmosfera irreale, il pubblico rimane impietrito in un religioso silenzio, mentre Abdullah sviluppa una serie impressionante di moduli tematici: quadri musicali mistici ed evocativi che presentano una grande attenzione per la melodia ed il ritmo. Il suo corpo rimane composto, quasi immobile durante l'esecuzione, mentre tradisce solo con le espressioni sofferte del viso il significato penetrante che va a generare la sua musica. E lo fa senza fermarsi mai.
Quasi 45 minuti ininterrotti di musica nei quali pone con calma una dietro l'altra decine e decine di note. Il suo tocco è leggero, felpato. Il suo suono è profondo. I temi delicati e malinconici. Un medley immenso in cui scioglie la struggente "Blue Bolero" con "The Mountain" e l'omaggio "For Coltrane". Ma non è l'unica anima musicale che si avverte. Come era lecito attendersi, dal piano fuoriescono tanto suoni americani, cenni di Thelonious Monk, quanto sonorità africane e ritmi arabi ("Ishmael"), in totale sintonia con il caldo torrido della serata, che però non sembra una distrazione per il pubblico. Questo, infatti, rimane totalmente immobile sedotto da questi suoni che sembrano non trovare una fine. La musica detta il ritmo del respiro del pubblico ormai caduto in trance.
Chi è avvezzo al jazz dal vivo sa perfettamente che l'applauso è una prerogativa di ogni assolo, spesso anzi è lo stesso musicista a richiamarlo. Ma questa è una serata diversa, in stasi e in estasi, finché giunge un irresistibile duetto del pianoforte con la batteria, un "duello" sonoro serrato ed esaltante che rompe spontaneamente l'incanto, conducendo ad un ineluttabile, caloroso e quasi liberatorio applauso degli spettatori.
A questo punto - liberi dall'ipnosi - ci si può meglio rendere conto degli altri elementi del trio, finora vissuti nella liquida unione musicale. E i musicisti che supportano Abdullah sono davvero stupefacenti. Il contrabbassista - Belden Bullock - ha un suono rotondo, senza una minima sbavatura e dialoga di continuo - quasi discretamente - con il pianoforte, concedendosi assolo misurati e perfetti. Insomma fa meravigliosamente il suo dovere, quasi senza darlo a vedere. Il batterista - George Gray - invece è semplicemente magico. Velocissimo, quanto leggero, dà spettacolo ruotando di continuo le bacchette sopra la testa, usandole come delle nacchere, per poi agitarle sulle pelli e sui piatti come le ali di un colibrì. Sfiora, accarezza la batteria con una classe sopraffina immensa. Una rara eleganza, semplicemente delizioso.

Il trio si intende alla perfezione e fa scorrere il tempo della musica senza pause, con una facilità estrema, tant'è vero che quando il concerto finisce tra gli applausi ci si sente leggeri e non stanchi. Per questo dopo il primo canonico bis l'entusiasmo degli spettatori è davvero alle stelle e Abdullah capisce che non può negarci un altro frammento di concerto, un'ulteriore sensazione di felicità fino alla vera chiusura quando Abdullah, George e Belden salutano il pubblico con un inchino, ma sinceramente sarebbe toccato a noi inchinarci per aver ricevuto da loro una serata indimenticabile.

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