A volte succede. E, quando succede, è buffo.
È buffo pensare che gli scozzesi Aereogramme, noti al pubblico per essere stati tra i padrini -e fondatori- del cosiddetto movimento post rock, decidano di sciogliersi, dopo dieci anni di onorata carriera, proprio in un momento in cui l'intera struttura del post rock sta cominciando a mostrare le prime crepe e a vacillare per la mancanza di idee. E tutto questo è anche un po' strano, perchè gli Aereogramme non possono essere catalogati solamente come "post rock": vuol dire tutto, e non vuol dire niente. E, al giorno d'oggi, questa nomenclatura può non far più piacere come un tempo.
In dieci anni gli Aereogramme hanno fatto un po' quello che gli pareva. Nelle loro canzoni, nei loro dischi, hanno fuso assieme il progressive rock -il vero e proprio pilastro base del loro suono- con il pop rock orchestrale, con atmosfere ambient dense ed eteree, con improvvise bordate di hard rock o di generi ancora più estremi e pesanti (basti pensare allo split realizzato con gli Isis, una delle prime creature, nel Nuovo Millennio, della scena hardcore/sludge metal). Nonostante la prima conseguenza di questa miscellanea sia stata la poca visibilità sotto i riflettori, i quattro di Glasgow erano riusciti a piacere un po' a tutti -se per "tutti" riusciamo ad intendere la piccola schiera che nutre le file della musica alternativa-.
Sembrava inconcepibile pensare ad uno scioglimento del gruppo. Non dopo quella gemma eburnea di "A Story In White" (2001), che aveva rappresentato il loro esordio al fulmicotone, nè tantomeno con i sofisticatissimi archi e i giochi elettrolitici del successivo "Sleep And Release", successivo di due anni. Per non parlare del già sopracitato split con gli Isis, "In The Fishtank 14", che più di ogni altri era riuscito a proiettarli nell'immaginario degli amanti della buona musica e, soprattutto, dei ferventi sostenitori della "contamination".
Eppure, è così. Nella primavera del 2007 i Nostri salutano le folle con un ultimo album, dal titolo poetico e lunghissimo ("My Heart Has A Wish That You Would Not Go"), annunciando la separazione imminente alla fine del rispettivo tour di promozione. Ma questa separazione ha un retrogusto amarognolo. L'album di congedo si rivela essere, infatti, una parziale risposta al dilemma posto in apertura di recensione. Se è vero che il post rock, come lo intendiamo noi, svela al mondo le prime apnee compositive, è anche vero che gli Aereogramme non fanno eccezione e, in parte, difettano di ossigeno assieme all'intero genere. In parole più povere, le trame dell'opera lasciano intendere quale sia stato il terribile morbo, serpeggiato fra gli scozzesi, a tal punto da impedire una loro eventuale crescita artistica. La prevedibilità.
Ed è un peccato, davvero: l'opener "Conscious Life For Coma Boy" rappresenta fedelmente quanto di meglio si sia sentito nel rock progressivo del Nuovo Millennio, Mogwai permettendo. Il geniale contrasto fra le chitarre distorte e roboanti dell'incipit, e i sottofondi a base di pianoforte e voci incorporee del ritornello, sembrerebbe essere il miglior biglietto da visita possibile, un vero e proprio calcio in pancia -indolore, s'intende- a tutti i critici del "nuovo rock", chi più chi meno. Ed invece, dopo una partenza a razzo, l'album si affievolisce progressivamente.
La prevedibilità, dicevamo. Una parola che di fatto non rientra nello scheletro di "Conscious Life For Coma Boy" ma che, purtroppo, racchiude gran parte delle tracce successive. Già dalla successiva "Barriers", si intuisce che qualcosa è cambiato: la melanconica voce di Craig B, supportata da un'insieme di archi davvero sostanzioso, funziona davvero, e pure bene: ma è la durata complessiva a far gridare allo scandalo. Una ballata di cinque minuti è davvero difficile da sopportare nella sua integrità, specie se i ritmi non subiscono un'accelerata e rimangono paciosi ed insonnoliti dall'inizio alla fine. Il problema principale dei brani a seguire è che non si registra alcun cenno di aggressività, nemmeno un'impronta sonora che non sia quantomeno presumibile, completamente dissolte le arzigogolate macchinature prog. Resta solo la melodia orchestrale, che può andar bene per tre, quattro brani, ma che risulta davvero eccessiva per otto. Per carità, nulla da dire, le sinfonie che si sprigionano dal cd, sebbene fin troppo barocche, sono più che apprezzabili: la pomposità, dopotutto, ha sempre un certo fascino. Quindi, si apprezza appieno il delizioso arpeggio acustico che apre "Exits", o ancora gli accenni cut'n'paste che appaiono nella timida "Finding A Light", e anche la delicatissima, conclusiva "You're Always Welcome", dominata da un armonioso intreccio fra voce e pianoforte, nonchè la dark wave che impregna, con la propria opprimente ombra, la profetica "Nightmares". Ma quello che davvero manca, nel migliore dei casi, è una certa freschezza compositiva, o un'idea vincente che possa trainare un pezzo dall'inizio alla fine. Tutto si scioglie e si mescola fra di esso, senza poter essere ben distinto, come accadeva nei lavori precedenti. La canzone che, forse, sfugge alla regola, ed è capace di mantenere alto il proprio onore, è "Trenches", una sorta di incrocio genetico fra la sonnolalia di Enya, la maestria dei Mogwai, le fiabesche atmosfere di Eluvium e le accelerazioni, nobili e corali, dei Sigur Rós.
Fa un po' male al cuore, ascoltare "My Heart Has A Wish That You Would Not Go". È un po' come dire addio ad un amico caro, quello che ha segnato le tue giornate, senza tuttavia non provare un senso di sollievo. È come averlo conosciuto puro e onesto, ed abbandonarlo sfrontato e falso. Ecco, forse è questa la vera origine della "malattia" degli Aereogramme: l'aver ceduto ad una piccola offerta di popolarità, e con essa un successo più ampio e, sicuramente, anche MTV. Melassa per adolescenti, penserebbero i più brutali ad un ascolto superficiale, e forse non hanno tutti i torti. Una cosa è certa: il cd si lascia ascoltare con piacere, nella sua blanda scorrevolezza, senza lode nè infamia. E a qualcuno potrebbe anche bastare così. Ma da una band che in dieci anni ha dimostrato di sapere sempre rinnovarsi, con creazioni ogni volta stupefacenti, ci si aspettava qualcosa di più e, soprattutto, qualcosa di qualitativamente diverso.
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