Alcuni lo sanno, altri no.

Quel nome che campeggia nel paesaggio e nel cielo squarciato da un fulmine è un omaggio. All’amore e alla forma d’arte dei Vevet Underground, il gruppo degli anni 60 che forse più di tutti seminò grandiosamente (e con semi di altissimo livello!) nel prato della musica del novecento.

Il nostro gruppo in questione prese il nome da una canzone dei VU, non una canzone qualsiasi, ma quella che più di ogni altra non c’entrava un cazzo con lo stile di Lou Reed e Co. Perché ?
Essendo la canzone più dolce e sbarazzina del gruppo era in netto contrasto con tutta la loro produzione (intendo i primi 3 dischi) e quindi la scelta del nome metteva in risalto questa contraddizione nel gruppo di Manuel Agnelli: il rumore (per gli altri, perché per me è arte) e la dolcezza, la disperazione e la soluzione, il punk/lo-fi/ e il pop. Questi sono gli Afterhours di “Germi”, “Hai paura del buio?”, “Non è per sempre”. 

Nel 2002 la svolta: viene nuovamente raggiunto il punto più alto di una carriera grandiosa ed innovativa per il panorama musicale italiano, dopo l’uscita seminale di “Hai paura del buio ?” nel 1997 che molti considerano l’album italiano migliore. Quel vertice non fu raggiunto da “Non è per sempre” (1999), di grande livello comunque. Nel 2002 appare questo oscuro ed intenso lavoro, con dei testi diretti, frasi emblematiche da scrivere sui muri, sperimentazione e psichedelia con tanto di mellotron, il coraggio di lasciarsi alle spalle il passato ed andare avanti, forse verso il buio, o forse verso "Quello che non c’è".

Un lavoro pregno di attacchi e lanci d’ira alla propria personalità, alla società, a ciò che circonda l’individuo. È, appunto, la situazione instabile dell’individuo con l’ sterno che predomina, nelle sue sfaccettature d’illusione, di speranza, di perdita della ragione. Prevale la voglia di trovare la forza per combattere queste situazioni, in cui la nazione riesce ad inquinare anche un sentimento puro come l’amore.
La prima reazione è, allora, disobbedire; alzarsi da quel letto che per tanto tempo ti aveva visto rassegnato, con la voglia di cambiare il mondo. “Quello che non c’è” è una forma d’arte compiuta per non spingersi ancora di più nel baratro e un’inno alla speranza perduta ma anche un atto di forza di grande umanità perché è “qui nell’aria che puoi capire quanto è tardi per cambiare idea/è troppo tardi per sentirmi nuovo/tardi per sperare/troppo tardi per cambiare ancora”.

Ha il fascino e la forza di risvegliare menti da tempo, da molto tempo, intorpidite. Guarda caso come sapevano fare i Velvet Underground.

Carico i commenti... con calma