Dopo cinque anni dal precedente “Aghora”, datato 2001, gli Aghora, formazione fondata dal chitarrista (dottissimo tecnicamente) Santiago Dobles, tornano sul mercato con l’album “Formless”.

Durante questi cinque anni però, in casa Aghora sono cambiate alcune cose, prima tra le quali, l’abbandono al basso di Sean Malone, rimpiazzato alla grande da Alan Goldstein (bassista dotato di tutt’altro stile rispetto al suo blasonato collega); altra importante dipartita è stata quella della cantante Danishta Rivero alla quale è subentrata un’altra giovane con alle spalle studi jazz: Diana Serra.

Spiace constatare da subito che, per quanto questo “Formless” sia un disco formalmente perfetto, perde nettamente il confronto con il precedente omonimo album e pur presentandosi aggressivo, potente e tecnico, dotato per lo più di riffs derivati dal thrash della bay area (il tutto calato in un’atmosfera quasi esasperata dal punto di vista tecnico/esecutivo) perde tutti quegli elementi jazzati e vicini ad un prog rock di derivazione settantiana che facevano di “Aghora” un vero masterpiece di jazz-metal.

Naturalmente non tutto è sbagliato in questo album, si nota anzi la presenza di pezzi davvero ben riusciti, quali “Atmas Heave” dotata di aggressività e potenza, alle quali alterna nel bridge dei momenti estremamente atmosferici. Altro grande pezzo è sicuramente “Garuda”, nella quale si fanno forti i richiami al passato e per quasi tre minuti si viene catapultati in una rilassante atmosfera dalle tonalità orientaleggianti; anche “Fade” convince grazie ad un’ interpretazione da parte di Diana, estremamente soft e in contrasto con una base melodica camaleontica che passa da momenti pacati ad altri decisamente più hard. Durante l’ascolto si ha però come l’impressione che esclusa qualche canzone, tutte le altre poi si “scimmiottino” l’una con l’altra, somigliandosi tutte moltissimo e risultando prive di un’anima propria.

Impossibile dunque, parlare troppo bene di quest’album che, pur essendo prodotto bene e suonato ancora meglio del suo predecessore, soffre di mancanza di originalità: bada bene tutto ciò non vuol dire che si andrà incontro all’ascolto di un brutto disco, bensì si ascolterà un platter che in più di un momento sembrerà statico e tutto uguale.

 

P.s. Un applauso al lavoro del bassista che oltre a dimostrarsi capace di riuscire a stare dietro ad una macchina da guerra come Sean Reinert, si trova anche a proprio agio nel tirare fuori dei solos veramente spettacolari che riescono ad impreziosire svariate parti di songs che altrimenti avrebbero sofferto ancor di più di mancanza di originalità.

 

Tracklist

1) Lotus

2) Atmas Heave

3) Moksha

4) Open Close The Book

5) Garuda

6) Dual Alchemy

7) Dime

8) 1316

9) Fade

10) Skinned

11) Mahayana

12) Formless

13) Purification

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