Albert Greene nacque nel 1946 in Arkansas, profondo sud degli Stati Uniti, sesto di dieci figli. Si avvicinò alla musica insieme ad alcuni fratelli, cantando gospel, ovvero la “musica sacra” del tempo, l’unica accettata dai bigotti, quella delle infinite lodi al Signore. Al amava la musica, tutta la musica, anche quella “profana”, quella che sconvolgeva il corpo e la mente di un ventenne nero del sud, che inevitabilmente ti spalancava le porte dell’inferno,quella che parlava di amore, quella con urletti in falsetto che ti facevano immaginare chissà cosa. Al quella musica l’ascoltava di nascosto perché era veramente la musica del diavolo, forse se ne vergognava, si nascondeva sicuramente dal terribile padre bigotto. Un giorno Al venne sorpreso dal padre, ad ascoltare Jackie Wilson, quello di Reep Petite... Cacciato di casa (oppure scappato) cambia città, stato e inizia a suonare in piccoli club in Tennessee. Alcool, droga, prostituzione, gioco d’azzardo e scommesse erano i suoi amici. Notato da Willie Mitchell, boss della Hi Records, lo invita a cantare per la sua band. Sacro e profano, questo dualismo accompagnerà il nostro eroe per tutta la vita, Al aveva chiuso (momentaneamente) il periodo sacro e stava per aprire quello profano, decisamente più interessante (artisticamente) per noi.

I primi anni ’70 passano meravigliosamente, il connubio con Mitchell nella parte di produttore funziona perfettamente, escono dischi che sono delle gemme preziose ed il pubblico apprezza acquistando per 30 milioni di volte i suoi dischi. Il motivo del successo è semplice, Al ha contribuito alla nascita di un nuovo genere musicale: il soul, fondendo il rhythm’n blues dei neri con il gospel. In quegli anni si seminano le radici di certa musica di oggi, dal Soul nasceranno Funky, Dance, Black, Hip pop, Rap e tutte hanno come unico genitore Al Green (a dire il vero ci sarebbero anche Sam Cooke, Marvin Gaye, Curtis Mayfield, Otis Redding, Stevie Wonder, Temptation… ma non sottilizziamo troppo…).

Il Soul, la musica dell’anima, ha una particolarità, riesce ad offrire una tensione emotiva, un crescendo emozionale che sembra sempre essere sul punto di sfogarsi, senza arrivare mai al culmine. Ti lascia in sospeso dando libero sfogo alla fantasia dell’ascoltatore, non è come il rock, che al contrario ti prende e ti travolge seguendo binari chiari e riconoscibili. Il soul è una scarica di erotismo puro. Una volta lessi che il soul è paragonabile al momento immediatamente precedente ad un orgasmo, che è la speranza di una esplosione finale, senza però averne la certezza. Fantastica definizione, non vi pare?

Non riesco a smettere Non riesco proprio a smettere di amarti Non riesco a impedire alle mie mani di trattenerti Ci deve essere un motivo per cui mi sento così libero No, Non posso smettere, no, no, no, no Tu e io, io e te (da I can’t stop, in apertura del cd, giusto per far capire di cosa si parla…)

I testi stessi sono pieni di riferimenti sessuali, gemiti, allusioni e doppi sensi.

Ma torniamo al nostro eroe, nel 1974, all’apice del successo, dopo aver pubblicato capolavori assoluti, (citandone solo due vi consiglio Let’s Stay Together e The Belle Album, ma sarebbe un peccato trascurare gli altri), Al ebbe la bella idea di respingere la proposta di matrimonio della sua fidanzata, la quale gli provocò delle profonde ustioni tirandogli del latte bollente, poi gli rubò la pistola e si suicidò nella stanza accanto.

E’ un segno divino, Al si converte al cristianesimo e diventa reverendo. Il sacro prende il sopravvento. I dischi successivi sono ancora buoni, ma qualcosa si è perso, la magia langue, qualcosa non funziona più. Pochi anni dopo cade dal palco durante un concerto, il signore mi chiama pensò, devo andare. Abbandona la musica profana, si dedica al gospel pubblicando album poco interessanti.

Anni dopo un buon live a Tokyo qui, un duetto con Annie Lenox là, la pubblicazione di un libro nel 2000, insomma qualcosa si muove, ma niente faceva presagire un ritorno in grande stile.

Invece nel 2003 Green rintracciò Mitchell realizzò uno splendido album profano, I Can't Stop.

La ricetta di Al è ancora la stessa, una spruzzata di gemiti e lamenti, abbondare con classe ed eleganza, condire con voci di accompagnamento sexy e mescolare il tutto con un groove muscoloso. Poi cuocere per un’oretta nel suo notevole falsetto.

Il risultato vi farà venire voglia di proseguire la cena con un suono immediatamente identificabile,un armonioso coesistere di languide orchestrazioni a base di ottoni e soprattutto di archi con l’elastica possenza di un basso e una batteria funky. Di contorno organi grassi e una chitarra saporosa di blues. Frutta con la voce di Al, serica e di un’eleganza nel fraseggio come non si udiva da Sam Cooke. Formidabili i commensali presenti, tra cui i mitici Memphis Horns (il trombettista Wayne Jackson, i sassofonisti James Mitchell, Ed Logan e Andrew Love, il trombonista Jack Hale), poi Mabon Hodges alla chitarra, Charles Hughes all’organo, Leroy Hodges al basso e Al Jackson alla batteria.

I Can't Stop il brano migliore, Rainin in my heart sembra uscire dalla colonna sonora di Shaft di un tale Isaac Hayes, I've Been Thinkin' About You in puro stile Sam & Dave, ma tutti sono godibili (in ogni senso) in questo cd pubblicato nell’anno di grazia 1973… Ma no, non era uscito nel 2003? Boh, mi sarò sbagliata…

Mi piace chi riesce a rifarsi una vita chi esce dal mucchio di letame, sporco e puzzolente ma pronto a ripulirsi e sputare in faccia agli amici di una volta e non è una metafora…

Al artisticamente lo ha fatto, lui sempre in bilico tra sacro e profano, stavolta ha centrato l’obbiettivo. Probabilmente non il suo disco migliore, ma ricordiamoci tutti che qui stiamo parlando dell’uomo che ha scritto la canzone il cui attacco da allora è praticamente l’inno americano all’amore, Let’s Stay Together.

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