Un mistero. Che neppure le prevedibili note di copertina della protagonista riescono a svelare. Già abbiamo assistito ai cosiddetti seguiti, neanche i dischi fossero film di Rambo (Mike Olfield con Tubular Bells II, Neil Young con Harvest Moon…), ma finora nessuno aveva osato reintepretare, riarrangiandolo in acustico con la scusa del decennale, un intero album, clonando tutto, a partire dalla copertina.
Sul tutto però aleggiano sia il fantasma dell’inutilità sia quello dell’utilità, e si respira il sospetto che l’opera sia una prova assolutamente inedita di auto-trash (nel senso Labranchiano di “emulazione fallita di un modello alto” -perdipiù, nel caso, autoinflitta…-).

Che dire…? Che il disco è brutto ? Certamente no: le canzoni sono belle. Alanis bravissima e certamente tecnicamente e vocalmente più evoluta. Che sia stato prodotto male ? No: la stessa produzione di dieci anni fa e la band sono garanzia di suono e d’arrangiamento non indifferente.
E di questo proviamo a parlare: gli arrangiamenti. Per chi criticherà negativamente questo disco saranno certamente piatti, monotoni, sostanzialmente insulsi. Ma è fin troppo facile l’obiezione: quale disco “unplugged” non è, di fatto, piatto, monotono e sostanzialmente insulso…? Qui almeno si possono trovare delle interessanti linee di chitarra, anche sostanzialmente diverse da quelle dell’“originale”, e una sezione ritmica decisamente viva e mai dormiente.
Se proviamo invece a porre l’accento sulle qualità interpretative di Alanis, ci ritroviamo sicuramente davanti a una voce ugualmente bella, certamente meno sguaiata e più matura. Più consapevole e meno ragazzina.

E allora dov’è il problema ? Nel fatto che Jagged Little Pill era un capolavoro in quanto esplosione contemporanea di rabbia e di gioia di vivere di una ragazzina. Era denso di tutti quei sogni estremizzati e belli che hanno caratterizzato (si spera) la gioventù di ognuno di noi. Era urlato, pianto, sofferto, oltraggiosamente vivo.
Questo disco non lo è, o perlomeno non lo è come l’altro
. Persino lo sguardo della foto di copertina del disco potrebbe essere più che rappresentativo di quello che ci si trova dentro.
È uno sguardo intelligente, ma sicuramente più adulto e disincantato.
Su tutti i versi dell’album potrebbe bastare la diversità delle pronunce dell’identica frase “and al I really want…is some justice !” , e l’urlo che ieri la seguiva ed il falsetto che invece la segue oggi, per capire completamente dove stiamo andando a parare.
O invece no…? Tutto, dal punto di vista rigorosamente oggettivo, dovrebbe portare a una stroncatura, ma il disco è oggettivamente bello, e si ascolta molto bene, pur rischiando di passare alla storia per la sua inutilità.
O saranno semplicemente le nostre orecchie ad essere invecchiate insieme alla sua voce, e a farci sembrare tutto così tranquillo e ben fatto da sembrare bello…?
Un mistero.

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