Uno [pausa di qualche secondo e poi in rapida successione] due tre quattro.

E un arabo è morto.

Certo, i colpi di pistola sono stati esplosi da Meursault e sarà lui a dover pagare di fronte alla giustizia umana. Ma consideriamo per bene i fatti.

Al momento dell'assassinio Camus posiziona il suo (anti)eroe in una spiaggia semi-deserta gravata dai bollori del meriggio. Immaginate l'arsura insopportabile, il lento e monotono rotolio delle onde che lambiscono i piedi e cuociono le sinapsi, sentite il sudore che vi cola sulle guance e sul collo, le labbra incrostate che boccheggiano senza tregua. La testa pesante per i fumi dell'alcool, quella luce che sembra calare dal cielo come una pioggia di fuoco, le gambe come due blocchi di marmo che affondano nella sabbia. E poi il profumo del sale lasciato sulla pelle dai capelli di Maria, il silenzio irreale dell'ora, la bonaccia vischiosa che cancella il ticchettio dell'esistenza.

Infine le pupille pugnalate senza scopo da quei raggi solari rifranti dalla lama di un coltello estratto dall'arabo e la piatta e levigata impugnatura della pistola che la mano destra stringe nella tasca.

Uno due tre quattro: un arabo è morto. E al giudice istruttore che gli chiede il movente di quell'omicidio Meursault oppone un ostinato silenzio il cui sottotesto sembra essere: "Perché? Perché così è stato".

Camus - filosofo sui generis che predilige immagini piuttosto che concetti - fa brillare l'Assurdo tramite un congegno fatto di concatenazioni sensoriali, di percezioni fisiche che nulla hanno a che vedere con l'impalpabilità di lambiccate astrazioni e, nel caso de "Lo Straniero", sembra suggerire che Meursault è solamente l'ultimo anello di una catena di eventi che hanno causato un omicidio.

È lui il solo responsabile o è piuttosto una delle tessere di uno specifico effetto domino innescato dalla Natura? È la sua volontà di potenza a premere il grilletto oppure non è altro che un agente (e una vittima egli stesso) di quell'Assurdo la cui forza distruttrice può travolgere chiunque e in qualunque momento?

Ora provate a sostituire l'anonimo impiegatuccio de "Lo Straniero" con un imperatore romano che dispone (e, soprattutto, fa uso) di un potere illimitato, pensate ad un Raskòl'nikov che non abbia alcun scrupolo di coscienza, ad uno Stavrogin in pieno delirio di onnipotenza. Che volto avrebbe quel Potere che esige la condanna di Josef K.? Fin dove sarebbe arrivato lo shakespeariano Riccardo III mondato dalla paura della morte?

Pensate a tutto questo e poi collocatelo in una drammaturgia.

Il Caligola della pièce non è altro che la quintessenza di quel homme absurde postulato da Camus nel saggio "Il Mito di Sisifo". È un uomo stanco del mondo così com'è, delle vili leggi che promulga, delle trite convenzioni che richiede, delle posture artificiali che impone (in questo senso quasi un fratello di sangue di Amleto).

Caligola, soprattutto, ha capito che tutto è regolato dall'Assurdo. E se è così, allora tre sono le conseguenze: "la mia rivolta, la mia passione, la mia libertà".

E persegue tutto questo da imperatore.

Se Meursault era una semplice rondella dell'imperscrutabile ingranaggio dell'Assurdo, Caligola - sfruttando al massimo la sua "posizione sociale" - vuole sostituirsi all'Assurdo. È l'Assurdo: "Il Destino non si può capire, ecco perché mi sono fatto Destino. Ho assunto il volto stupido e incomprensibile degli Dèi".

Nel suo regno non c'è ancora stato un flagello degno di nota? Allora lui chiuderà i granai imperiali provocando una carestia generale. Le casse di Roma languono? Allora tutti i patrizi disedereranno i loro figli, nomineranno lo Stato unico erede e saranno uccisi del tutto arbitrariamente nel caso la situazione lo possa richiedere.

Caligola è solo un uomo? Allora metterà in scena una rappresentazione teatrale in cui farà le veci di una Venere grottesca che mostrerà al popolo quanto sia profonda la crudele indifferenza e la capricciosa volontà che la contraddistingue (sorta di mise en abyme meta-teatrale che traccia, dal punto di vista della scrittura drammatica, un ulteriore punto di contatto con Amleto).

Ma il Caligola di Camus non è quel pazzo furioso senza arte né parte che la Storia ha trasmesso sino a noi, al contrario: nella sua lucida follia esaspera sino al paradosso una logica netta, cristallina, senza nessuna sbavatura. È un filosofo che sà quello che vuole e, se alla massa sembra dissennato, è solo perché non riesce a capire la grandiosa idea di cui è impregnato.

La vera passione di Caligola è la vita umana sulla Terra a cui vorrebbe dare nuovi significati e nuove possibilità, ma il suo è un amore tossico, furioso e - alla resa dei conti - unidirezionale. Vuole letteralmente la luna, vuole "semplicemente" l'impossibile e - per fare questo - deve necessariamente rivoltare il mondo come un calzino.

Naturalmente dovrà morire.

E nella congiura ordita alle sue spalle, in mezzo ai tanti che si ribelleranno solo per meschine ragioni di opportunità personale, sono due i personaggi che si stagliano in una luce diversa.

Innanzitutto Il giovane poeta Scipione che ha perduto il padre per mano dello stesso imperatore in un momento di sfrenato divertissement omicida. Personaggio ammantato da una sottile aura anarchica e dotato di una penetrazione psicologica notevole si rifiuterà alla fine di levare il pugnale contro il tiranno perché, a dispetto di tutto, non riesce a non sentire per lui una specie di affinità elettiva nell'identica spasmodica tensione all'assoluto: per l'uno declinata alla creazione e per l'altro alla distruzione.

E poi Cherea, erudito patrizio romano che si fa portavoce del modus pensandi borghese senza però scadere nella viltà e nella menzogna. Capo dei rivoltosi e nemico giurato che addirittura confesserà a Caligola il proposito di un imminente colpo di stato e al quale l'imperatore, in un'ennesima variazione dell'Assurdo, non torcerà un capello.

Quella di Camus, però, non è una pièce incasellabile in quel famoso "teatro dell'assurdo" che di lì a qualche anno Ionesco&C. - sulla matrice beckettiana - imporranno sulle scene di tutta Europa. "Caligola" non delinea un' allegoria astrusa per rivelare una qualche verità o norma sociale o esistenziale.

"Caligola" è piuttosto un dramma sull'Assurdo inteso come Uno primigenio e sempiterno, come sorgente inesauribile - e inesorabile - di vita e di morte.

E tutto questo è decisamente troppo per un essere umano, foss'anche un imperatore romano nel pieno delle forze.

Caligola non riesce più ad essere solo, né coi vivi (per i quali prova più che altro disprezzo) né coi morti (con i quali intrattiene lunghe conversazioni). È ossessionato, ma non dal rimorso o dalla paura. È quella solitudine popolata da "stridori di denti", sono i passi di quegli "strani esseri senza nome che si sente crescere dentro". Ha compreso, come direbbe Sartre, che "l'inferno sono gli altri" (vivi o morti che siano) e che da questo incubo si può uscire in un solo modo: con il silenzio perfetto, con il sonno senza sogni.

Per questo andrà incontro alla morte con il senso di una liberazione ormai finalmente alle porte e quando, con le lame dei congiurati ormai ben sguainate, urlerà allo specchio "Caligola, alla Storia!" avrà nel cuore un'ultima consapevolezza: un grandioso fallimento vale infinitamente di più di mille miserabili vittorie.

Sì, al momento del suo assassinio bisogna immaginare Caligola felice.

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