Ci arrivo dopo aver passato le nari sulle lussureggianti vibrisse della mia gatta e dopo aver dato un bacio carico di significati a mademoiselle-la-Jockerèsse, un bacio che mi ha ricordato una volta di più quanto sia importante in amore - se proprio si vuole utilizzare questo termine - una verità solo apparentemente cinica e scazzata: “non bisogna rompersi i coglioni a vicenda”.
Ci arrivo dopo un tremebondo viaggio sulla superstrada Cesena-Roma per lunghi tratti oscenamente a una corsia e dopo aver maledetto la mia riluttanza a fornire la Cosmic-mobile di un adeguato impianto di aria condizionata.
Ci arrivo dopo una frugale merenda in autogrill a base di un Cucciolone mezzo assiderato con annessa la solita deludente vignetta vergata sul biscotto e l’apparizione dell’appetitoso sederino di una crucca, prelibatezza parzialmente rovinata dall’insinuarsi del banale stereotipo secondo cui gli effetti nefasti della dieta birra&crauti non tarderanno a sformare ciò che oggi è perfettamente modellato.
Ci arrivo dopo una tagliata di manzo rigorosamente al sangue bagnata da mezzo litro di Sangiovese e un giro a Città di Castello Centro dove una targa piuttosto polemica incastonata nel portale del fianco sinistro della chiesa di San Francesco mi informa che il magnifico “Sposalizio della Vergine” di Raffaello - una volta orgoglio e vanto dei fedeli del luogo - si trova ora al museo Brera di Milano, e si trova per motivi non meglio precisati.
Ci arrivo soprattutto dopo una visita a Palazzo Albizzini contenente una prima Collezione Burri composta da opere che egli stesso selezionò in quanto rappresentative del suo percorso artistico maturo iniziato nel 1948 e che si caratterizzano per un linguaggio dominato dall’utilizzo di materiali non convenzionali. Lavori divisi in cicli pittorici, ognuno con una tecnica e una sperimentazione particolare: se in un primo momento vengono issate sulla tela dense e slabbrate porzioni di catrame cauterizzate da manciate di sabbia di grana grossa, è la tela stessa poi ad essere concepita come un carnaio di lacerati - e laceranti - brandelli di sacchi di iuta suturati uno accanto all’altro da punti di filo nero pesante e dilaniati da pennellate color carne viva; se le spericolate sfumature del reticolo di efflorescenza fungina dei grandi “Bianchi” palesano tutta la ricchezza ed eloquenza di un microcosmo monocromale, sono poi collage furibondi eppure millimetrici di indumenti consunti strappati e rattoppati a catturare l’attenzione con i loro colori slavati, masticati e smozzicati; se combustioni di lamine di legno sottile, fogli di cellophane e plastica creano delicatissime quanto espressive nervature quasi intessute nell’aria, è poi la tangibilità palpitante della Madre Terra ad essere inquadrata dall’occhio di bue di cretti bianchi e neri variati all’inverosimile e negli spessori e nella trama della craquelure.
Comunque, alla fine ci arrivo. Magari leggermente stremato, forse un pochino accaldato, financo vagamente alticcio, ma ci arrivo.
E già al parcheggio - con le pareti dei furono seccatoi del tabacco completamente verniciate di nero e le tre gigantesche sculture in ferro del cortile a mo’ di tre teste di un Cerbero postmoderno - capisco di essere giunto in una zona in limine, in una linea di confine, in una terra di frontiera. Ma lungi dal voler terrificare o dissuadere tutto lo spazio esterno sembrava voler dire: “coltivate ogni speranza voi ch’entrate”.
La prima sala è una sorta di ouvertoure, di invito al viaggio oltreché ideale trait d’union con le opere esposte a Palazzo Albizzini e devo confessare che la “Grande Plastica” di 5 metri per 5 guardata a vista dall’occhio torvo di due cretti neri posti ai lati mi ha subito smosso qualcosa dentro. Quella luce perlacea che mi irradiava frontalmente e che pareva celare una verità indicibile, quella soglia al di là della quale ogni ansia sarebbe stata placata e ogni desiderio saziato, quei custodi nerboruti e onnipossenti che intimavano un divieto così perentorio, così invalicabile: sì, mi sono sentito un po’ come quel povero contadino di kafkiana memoria che disperatamente anelava alla Legge e i cui sforzi erano invariabilmente frustrati da un irremovibile guardiano.
Non preoccupatevi, non mi cimenterò in un ignominioso room-by-room ma fatemi comunque rilevare l’importanza dello spazio espositivo. Gli ex seccatoi del tabacco sono divisi in undici sale sobrie, funzionalmente illuminate, distese in una profonda lunghezza dove le opere di Burri sono poste sui lati lunghi e - una per parte - su quelli corti.
I lavori di questa Collezione sembrano abbandonare la matericità convulsa della “prima stagione” creativa del Nostro per abbracciare una sorta di geometrica carnalità, di caotico rigore, di lucida tensione al mistero sviluppati soprattutto grazie a dipinti in acrilico sull’impasto ligneo del cellotex. Di più, con gli anni Burri sembra aver trovato una più salda consapevolezza della composizione: le opere di Palazzo Albizzini erano splendide poesie ma come “chiuse”, “concluse” in sé; erano variazioni sul tema di una determinata sperimentazione su un materiale che - più che comunicare fra loro - si scioglievano in soliloqui. Negli ex seccatoi del tabacco invece ogni sala ha una sua poetica dove ogni opera - anch’esse selezionate e posizionate accuratamente dallo stesso Burri - è un verso che ha un suo senso compiuto ed insostituibile solo se inserito nel poema relativo.
Io in Burri, forse condizionato dalla mia impressione iniziale, ci ho trovato qualcosa di Kafka.
Appena entro nella sala “Il Viaggio” il colpo d’occhio immediatamente si sofferma sulla policromia che, in crescendo, divampa dalle tele man mano che si allarga lo sguardo verso il fondo e se - all’inizio - i particolari oro, blu e rosso con la loro forma bizzarra e, da quella prospettiva, minuscola dimensione fanno pensare ad una festa in maschera di tanti Odradek (esserino dalla forma ineffabile che con la sua sola presenza infestava i pensieri della voce narrante de “Il Cruccio del Padre di Famiglia”), avanzando lentamente per la “navata” tutte quelle situazioni inusitate, quegli incastri inaspettati, quelle spigolature caleidoscopiche ricalcano quasi fedelmente l’avventura psichedelica del protagonista di “Descrizione di una Battaglia”.
Non solo, se si percorre la sala a ritroso e se, dunque, dal colore si procede verso il nero, l’effetto è quello di una discesa verso il buio; ma non un buio qualsiasi, piuttosto quello della ragione che così spesso può produrre quegli arbìtri incomprensibili e inoppugnabili che subì il povero Karl scacciato di casa dallo zio Edward in “America” o quelle maledizioni dissennate che distrussero la vita di Georg ne “La Condanna”.
Nella sala “Orsanmichele” dove le opere sembrano quasi sviare l’attenzione e “impedire” l’avvicinamento al “Grande Nero” - un cretto monolitico di ferro verniciato di nero - posto proprio sul fondo, sembra di dover ripercorrere tutte le false piste e i vicoli ciechi che impantanarono i passi dell’agrimensore K. nel suo vano tentativo di raggiungere Klamm, il supremo funzionario de “Il Castello”.
E che dire della sala “Metamorfotex” dove la sistemazione attigua dei dipinti - priva d’intervallo tra le cornici - in una graduale trasformazione cromatica dal color sabbia al nero, pare voler evocare la notte febbrile che mutò Gregor Samsa in quell’immondo insetto de “La Metamorfosi”.
Nella sala “Annottarsi” inoltre, composta da grandi cellotex neri, si può leggere su una targa che Burri “non era un artista che amava aggiornarsi in pittura né tantomeno nei principi relativi all’arte”. Traslato su un altro piano era un po’ ciò che il protagonista delle “Indagini di un Cane” pensava a proposito dello sviluppo scientifico: “la scienza progredisce, non la si può fermare, procede anzi con ritmo accelerato, sempre più veloce, ma cosa c’è da elogiare? Sarebbe come esaltare qualcuno perché con gli anni diventa più vecchio e perciò si avvicina sempre più velocemente alla morte”.
Sì, c’è qualcosa di Kafka in Burri. C’è lo stesso universo dove vige una Legge promulgata da un Altrove irraggiungibile. Una Legge imperscrutabile, tassativa, cristallina nell’esecuzione e perfettamente ordinata, anche quando quest’ordine provenga dall’assoluta precisione di un Caos geometrico.
Ma con una differenza: la Legge in Kafka opprime e castiga, in Burri lenisce ed eleva.
E questo senso di Altrove liberatorio è ancora con me quando risalgo in macchina, faccio il viaggio a ritroso, ritorno nei miei appartamenti e - finalmente - mi stendo a letto.
Soltanto al mattino, quando ricomincio a sentire gli artigli della quotidianità attorno al collo, il dorso di un pensiero comincia a guizzare nel fondo del mio caffè doppio che mi sta davanti: la coscienza di tutte le occasioni di Bellezza che ho sprecato, che sto trascurando e che non conoscerò mai.
Finché arriverà quel giorno, il giorno in cui qualcuno o qualcosa mi accoltellerà due volte al cuore ed io, come Josef K., non potrò far altro che mormorare: “come un cane!”.
E allora, davvero, sembrerà che solo la vergogna mi dovrà sopravvivere.
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