Li avevamo lasciati con il bellissimo “I Passi di Liù”, riuscito connubio fra folk, sonorità ambient e anche qualcos'altro in più. Era il 2008 e gli emiliani Albiereon ci consegnavano uno degli album più interessanti usciti negli ultimi anni in materia di neo-folk. Nel 2013 i Nostri ritornano con un doppio album chiamato a soddisfare un'attesa di quasi cinque anni: se “Le Fiabe dei Ragni Funamboli” non è un lavoro originale e ricercato stilisticamente come lo era stato il suo predecessore, alta rimane l'ispirazione della band, benché la proposta oggi ci sembri più semplice che in passato. Il ritorno degli Albireon coincide con un parziale abbandono delle velleità evolutive e la volontà di concentrarsi sull'essenziale: le emozioni.

Quello che era apparso un collettivo, oggi riemerge nella forma di un terzetto, cucito sempre intorno alla voce ed alla chitarra di Davide Borghi: una formazione ristretta che risulta funzionale ad esaltare le doti di cantautore dello stesso Borghi, laddove Carlo Baja Guarienti (tastiere e flauto) e Stefano Romagnoli (samples e soundscapes) si dedicano alle rifiniture. “Le Fiabe dei Ragni Funamboli” non è quindi un'opera corale, bensì una raccolta di ballate in cui l'operato di Borghi rimane la sostanza fondante. Brani composti nel corso degli anni, frutto di un impegno portato avanti in modo discontinuo fra il 2006 e il 2012, e che nel corso degli anni hanno evidentemente faticato a trovare un assetto definitivo, e che oggi invece vedono la luce grazie ad un equilibrio che dona loro coerenza e ragion d'essere.

Coerenza ed equilibrio che si riscontrano anzitutto nella forma (quella della ballata acustica che di rado prevede divagazioni stilistiche, quella delle bellissime illustrazioni di Massimo Romagnoli) e che trovano conferma nel prevalere dei temi da sempre cari al Borghi paroliere: il trascorrere del tempo, l'inevitabile disgregazione delle cose, un insopportabile senso di perdita, un gusto poetico che ama indugiare su sensazioni fanciullesche e dettagli naturalistici, e del mondo vegetale, e del mondo animale (con particolare attrazione per il brulicante universo degli insetti). Un folk bucolico, pertanto, magico, fiabesco, che ci parla di un'arcadia che non tornerà più (la fanciullezza?, il “bel mondo” di una volta?, il dominio di una natura incontaminata a cui l'uomo si accordava con armonia?), senza scadere in un “paganesimo” da quattro soldi tanto in voga all'interno dei confini del genere proposto.

Diciannove episodi di pregevole minuteria acustica che la band ha scelto di suddividere in due album distinti: “Fiabe di Rugiada”, cantato in italiano, e “Fiabe di Vento”, interpretato nel dialetto della Val d'Asta (zona appenninica di area emiliana). Due album gemelli (il primo dalla lunga gestazione, il secondo più recente ed uscito di getto a completamento del primo che autonomamente non sembrava possedere quell'equilibrio ricercato dagli artisti) che costituiscono i due volti della stessa medaglia: “la voglia di tornare a casa”, di fermarsi ed indugiare nelle stanze della propria interiorità, lo sguardo venato di nostalgia verso un passato irrecuperabile di purezza ed innocenza, testimoniato dai candidi ricordi dell'infanzia (“Fiabe di Rugiada”) e dalla saggezza della natura e delle tradizioni ad essa legate (“Fiabe di Vento”).

La forza delle canzoni, quindi, non sta questa volta nel porsi come una parte di un percorso (di consapevolezza?), ma nell'intima fragilità di verità appena sentite e sfiorate. Il senso di ricerca quindi rimane palpabile anche in questo lavoro, benché sia più lecito parlare di recupero: il recupero di ricordi, memorie e sensazioni, probabilmente di origine biografica, ma al contempo di carattere universale. La semplificazione delle forme giova al lirismo di Borghi, la cui voce sembra godere di un trattamento migliore che in passato, anche se nemmeno questa volta ahimè tutto sembra filare liscio a livello di mixaggio (peccato!). Peccato, dunque, che le parole non siano sempre comprensibili e peccato che l'ascolto proceda un po' faticosamente: lo sforzo profuso nell'afferrare il sostrato lirico dell'opera potrebbe infatti spodestare l'ascoltatore da quella predisposizione all'abbandono ed all'arrendevolezza che un'opera del genere richiederebbe.

Ad aprire le danze è un breve strumentale, “Girotondo”, capace fin dai primi istanti di incantare con i suoi intrecci di chitarra acustica. Segue il pezzo forte dell'album, “Nel Nido dei Ragni Funamboli”, dal vigore wakefordiano (qua e là echi dei primi Sol Invictus) e dal bel testo, con i ricami preziosi del sax di Gianguido Corniani (scelta azzeccata), che s'incunea nel bel ritornello e svolazza libero nel finale. Il primo tomo, “Fiabe di Rugiada”, scorre così, fra immagini suggestive, guizzi poetici ed un semplice ma efficace connubio fra chitarra acustica e trame tastieristiche: uno schema qua e là incrinato dalle stecche di Borghi e da una vaga sensazione di noia, data dalla somiglianza eccessiva fra i vari episodi. A dare loro spessore è il sofferto lirismo di Borghi, che in brani come “Distanze”, “Il Deserto dei Tartari” e “Linea d'Ombra” raggiunge vette ragguardevoli quanto ad intensità e capacità di descrivere sfumature emotive attraverso l'uso di immagini e simbologie. L'incalzante fisarmonica di “Prima del Buio”, di cui peraltro circola in rete un video, e il tetro ambient su cui si costruisce la suggestiva “Acrobati”, sono invece i momenti in cui la band, in questa prima parte, si concede una maggiore voglia di elevarsi da un modus operandi forse un po' troppo ingenuamente votato alla spontaneità, che spesso fa rima con prevedibilità.

“Fiabe di Vento”, dalla durata contenuta (appena trentacinque minuti), immerge l'ascoltatore in una dimensione ancora più meditativa e densa di mistero. E' sicuramente l'effetto straniante del dialetto della Val D'Asta, ma è anche l'approccio adottato dalla band, che si mostra maggiormente incline ad operare sul fronte dell'atmosfera: ne sono degni esempi gli umori lugubri dell'opener “Al Cimiter du Fulet”, i sei minuti abbondanti di “Neva”, offuscata da gelidi droni e dall'incursione di una sinistra voce effettata. Più in generale a convincere sono i brani che pur nella loro innegabile semplicità risultano maggiormente compositi, spesso aperti o chiusi dal chiaro-scuro di passaggi ambientali, e più radicati in un folclore ancestrale nella loro controparte acustica, come dimostra l'evocativa “La Spusa de Striun”, cantico senza tempo avvolto da un manto di sublime mestizia e arricchito da suadenti gorgheggi femminili: brano che testimonia la capacità della band di scavare a fondo e dare alla luce momenti di pathos ed intensità artistica invidiabili. Le stesse chitarre, che suonano più riverberate ed intangibili, si accordano ad intenti che riavvicinano i Nostri alle sperimentazioni tentate con maggiore convinzione ne “I Passi di Liù”.

Considerati gli umori di natura squisitamente crepuscolare catturati dal platter, si consiglia un ascolto attento perpetrato nella penombra della sera o in periodo rigorosamente autunnale/invernale, cosa che fa di questo lavoro un'opera non per tutte le stagioni e la cui fruizione si va a legare necessariamente allo stato d'animo di chi l'ascolta.

A lasciare l'amaro in bocca, però, è l'impressione che se l'opera avesse goduto di un maggiore riguardo nel lavoro di mixaggio e di qualche accortezza in più in sede di arrangiamento, avremmo fra le mani probabilmente il migliore esempio di cantautorato dei nostri tempi. L'espressione grezza e minimale di una band che evidentemente, pur avendone il potenziale, non intende elevarsi al di sopra del recinto oscuro del folk apocalittico, scegliendo così la via coraggiosa della nicchia, fa sì che l'opera stessa rimanga appannaggio dei soli cultori del genere.

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