Altro che spazio aperto e astronauti, qui si riparte dai pavimenti sporchi di cacche di cane. Siamo sull'ultimo gradino della scala sociale, e seguiamo le vicende minute di Cleo, domestica di una famiglia benestante di Città del Messico. Eppure, alla fine quello che snocciola il regista è il senso ultimo dell'esistenza, le forze che la vivificano e la contrastano. In un gioco estremo di alto e basso, costruito intorno a un esercizio di realismo che appare rigoroso, Cuarón parla di massimi sistemi senza mai dare anche un solo accenno filosofico alla sua opera, senza indugiare in moralismi, senza specchiarsi. La dignità dello stare al mondo, anche sull'ultimo gradino, emerge pacata e inarrestabile.

Un esercizio di realismo che si esprime ovviamente nella scrittura, nell'andamento mai forzato delle sequenze, nel ritmo pacificato. Lo sguardo è quello di un animaletto che attraversa la foresta senza capire tutto, osservando, patendo, lottando, ma senza mai avere una prospettiva complessiva delle cose. Ci sono però almeno due elementi che tradiscono questa professione di fede realista: il colore, la fotografia in bianco e nero che dà una connotazione emotiva alle vicende. È innegabile, l'assenza di colore dice un'amarezza insita nelle cose, che corrompe anche la bellezza, la silenzia un poco, senza riuscire a strozzarla.

Lo stratagemma supremo per sconfessare il realismo della narrazione sta però nella regia e nei movimenti di macchina. Non seguono un andamento umano, da film realista, tutto il contrario. Carrellate e panoramiche, inquadrature fisse, quasi mai un primo piano. Una costruzione stilistica che non ci vuole portare nelle cose, ma pretende uno sforzo di distacco per capire i valori e i concetti dietro alla vicenda individuale (e familiare). Non è un caso che i primi piani siano solo due o tre in tutto il film, e di primissimi non ce ne sono proprio. Gli eventi che richiederebbero un'indagine di introspezione non mancano. Ma la scelta è programmatica, perché le giornate di Cleo, le amarezze della signora Sofia e il vociare allegro dei suoi quattro figli sono solo una delle infinite storie che compongono l'esperienza umana.

E Cuarón, pur nel racconto minuto, punta ai concetti grandi, totalizzanti. Le forze che regolano la vita: quella violenta, fallica, incendiaria, omicida, e quella passiva, paziente, materna, un'acqua che placa le fiamme, l'istinto riproduttivo. La famiglia come la politica e il mondo intero vivono di queste due forze che si amano e odiano, che si fondono e si scontrano, che si completano. Non è un semplice elogio della donna, perché qui le donne sono sempre alla ricerca del sostegno maschile, che spesso manca, è irriconoscente e ribelle. Ma necessario. Non duraturo, non comprensivo, ma inevitabile.

Sarebbe sbagliato vederla come una disputa di genere, anche se viene molto facile. La violenza è elemento ineludibile, che viene simboleggiato in diversi passaggi un po' più dilatati del film. L'urto che rompe il vaso da cui Cleo stava per bere, l'incendio che aggredisce il bosco, l'ira inesausta di Fermín. Sono lampade accese che la domestica spegne pazientemente, prima di coricarsi. Sono le onde impetuose del mare, che danno gioia ma quasi uccidono. Sono una pistola puntata a una donna incinta, dall'uomo che l'ha fecondata.

La forza tranquilla di una gestazione che dura nove mesi e potrebbe non andare a buon fine. Il regista messicano celebra la fondamentale importanza di questa parte del mondo che sembra solo subire, ma in realtà ogni giorno dà tantissimo, come la parte attiva, incendiaria. L'esistenza è quella cosa che emerge dall'incontro e scontro tra queste due forze. Ma anche l'apparente passività ha dentro di sé un'energia spaventosa, che non si esprime in modo esplosivo, ma nella costanza di resistere ogni giorno. Senza questa volontà la vita non può esistere (come dimostrerà un risvolto tragico del film).

Non basta tutto questo per fare un capolavoro. E allora Cuarón ci mette due sequenze da groppo in gola per rappresentare ai suoi estremi le possibilità salvifiche e mortificanti della forza tranquilla di Cleo. In questi due (e pochi altri) passaggi, la commozione della vicenda particolare e i nodi essenziali della visione filosofica si fondono in momenti d'una bellezza che tramortisce.

8/10

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