Anche i maestri devono cominciare da qualche parte e Murder! (1930) è uno dei primi esperimenti sonori di Hitchcock. Come tutti gli esperimenti qualcosa non ha funzionato. Il titolo con punto esclamativo promette scosse elettriche da brivido, ma alla fine sembra più un colpo di tosse o persino una domanda esistenziale. Murder? sarebbe stato più onesto, tipo "Scusate, c’è stato un omicidio qui?"

Lo vidi per la prima volta in televisione, bimba impressionabile (e soprattutto priva di strumenti critici affilati), e mi parve un film ben fatto, intrigante, addirittura con un finale sorprendente. La revisione adulta ha rivelato crepe profonde come canyon e polvere da soffitta della nonna.

La trama cavalca un tema caro a Hitchcock: l'innocente accusato, stavolta servito con contorno di teatro amatoriale. La storia parte discretamente, con Diana Baring, un'attrice trovata catatonica accanto al cadavere di una collega, in una scena del crimine allestita come un macabro set teatrale. Vestito insanguinato, arma del delitto ai piedi: manca solo il cartello "COLPEVOLE" appeso al collo. La sua difesa è inesistente come il budget per le scenografie, la reputazione distrutta più velocemente di un castello di carte in un tornado, e il suo atteggiamento vago-passivo fa sì che la pena di morte venga servita su un piatto d'argento.

Ma fra i giurati c'è Sir John Menier, attore ricco, pieno di iniziativa e megalomane quanto basta per fare l'investigatore amatoriale. Con l'aiuto di Doucie e Ted Markham, altri due teatranti in cerca di un ruolo nella vita reale, decide che Diana stia proteggendo qualcuno.

L'indagine si muove tra le quinte del teatro con la grazia di un elefante in una cristalleria: scenografie ridotte al minimo, dialoghi fiume che scorrono come melassa, la macchina da presa ferma come un guardiano incollato alla sedia nel turno di notte. Non aiuta il fatto che nella versione originale Doucie sia più logorroica di un venditore porta a porta e la sua voce suoni come le classiche unghie sulla lavagna. Tutto indica che Hitchcock pensasse ancora in termini di palcoscenico, dimenticandosi di stare facendo cinema.

Tuttavia almeno due scene meritano una menzione: quella di Menier che si rade mentre discute con se stesso, un rivoluzionario (per l’epoca) dialogo interiore reso udibile grazie all'uso pionieristico del sonoro preregistrato e il finale circense, che conserva ancora un minimo di capacità di sorprendere.

Non è il film che ha consacrato Hitchcock come maestro del brivido, né quello che rivedresti per la quinta volta col popcorn in mano. È piuttosto una curiosità da museo, un Hitchcock che si sta facendo le ossa come un apprendista pasticcere che cerca di capire come glassare la torta, ovvero come trasformare un dramma da palcoscenico in un film, senza farlo sembrare una recita scolastica filmata.

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