Alio Die, al secolo Stefano Musso, milanese quarantenne piuttosto schivo e silenzioso, da diversi anni ha fatto proprio della discrezione e del silenzio una base su cui impiantare e coltivare una forma musicale. Pur essendo un non-musicista, autodidatta e arrivato piuttosto tardi ad occuparsi di suoni, ha all'attivo numerosi dischi e collaborazioni illustri con nomi internazionali dell' area ambient e concrete.
Partendo dalla lezione di artisti a lui cari (tra i quali i Nocturnal Emission) e servendosi più dell'intuito che della tecnica, verso la fine degli anni ' 0 ha cominciato a sperimentare e a registrare, creando una sua piccola label personale e distribuendo materiale in un canale di nicchia.
Dalle prime cassette, confezionate con cura e con qualche inevitabile pecca creativa, è nato il primo album ufficiale "Under an holy ritual", che già dal titolo rivela senza ombre la sua natura - titolo che per altro contiene un errore grammaticale inglese macroscopico.
Il rituale, la sacralità: pur senza avere alcun reale riferimento esoterico o religioso, questi concetti portano dove Alio Die ha sempre cercato la chiave per una comunione introspettiva col mondo e la natura. Dal suono alla concentrazione dell'individuo, passando attraverso spazi di rarefazione che sfiorano il silenzio e quindi l' essenza delle cose e degli elementi. Una musicalità fatta non di note, ma di evocazioni e vibrazioni, che si ripetono ciclicamente e si arricchiscono via via di nuove voci.
Nulla di realmente nuovo, d'altronde, visto che numerosi progetti britannici e americano all'epoca avevano già prodotto opere notevoli in quella direzione. Tuttavia c'è da dire che Alio Die ha poi saputo percorrere una sua via senza fossilizzarsi e dando prova di felici illuminazioni con una delicatezza "mistica" estremamente intensa. Tanto che molti gli hanno criticato un'eccessiva metafisicità e un distacco quasi ascetico dalle finalità che la musica in quanto tale dovrebbe avere. I brani intrisi di vento e di richiami di lontane creature non sono canticchiabili. Così come le sorgenti sonore utilizzate da Stefano Musso spesso non sono ortodosse. "Under an holy ritual" è stato creato più che altro con registrazioni ambientali e campionamenti già pronti. In quanto opera prima non aveva ancora la spinta personale adatta a connotarsi come un disco originale dal punto di vista concettuale. Cosa che poi, invece, è accaduta con lavori successivi, sicuramente di maggiore spessore e intriganti nella loro struttura.
Per questa ragione il mio voto non è altissimo: un buon esordio, ma lungi dall'esprimere la quintessenza di un autore che nell'89 era troppo ancorato ai suoi modelli.
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