Chi passa molto tempo a contatto con la musica spesso s’imbatte in artisti ed album “non preventivati”, a cui ci si avvicina per semplice curiosità e con cui, per pura magia, scatta l’innamoramento. Così è accaduto con “Where the Wild Oceans End” di Andrea Schroeder, ciofane poetessa e cantante tetesca di Cemmania, giunta al suo secondo album dopo aver debuttato con “Blackbird” nel 2012: lungi dal rappresentare il tipico ascolto mordi-e-fuggi, presto lasciato alla mercé dell’inclemente azione della polvere una volta esaurita la forza propulsiva della curiosità, questo nuovo lavoro si impone con grande autorevolezza nel panorama odierno, classificandosi con dignità fra le novità più interessanti dell’anno 2014. 

Tirate pure in ballo tutte le donzelle emerse negli ultimi dieci anni, quelle che hanno brillato per un istante per poi spegnersi in un batter di ciglia, e coloro che già si sono assicurate un posticino nella storia della musica: Andrea Schroeder le batte tutte. Costei, la sua voce, la sua musica, possiedono un magnetismo che personalmente non ho riscontrato nella mischia delle ugole “femminee” incontrate negli ultimi anni.

Questa ragazza eccezionale, senza clamore, senza virtuosismi né estremismi né formule innovative, confeziona un’opera matura che finisce per brillare per i suoi contenuti (per le canzoni), prima ancora che per l’atmosfera, il mood, l’attitudine (che pure non mancano), o il suo posizionamento (con o senza un’etichetta) nell’attuale mercato discografico. Questo è cantautorato, colto e raffinato, questo è rock, sì dolente, severo, ma anche energico, irruente, selvaggio.

L’atmosfera che avvolge “Where the Wild Oceans End” è tesa ed al contempo pregna di romanticismo, e finisce per appropriarsi di tutte quelle sfumature che appartengono alla complessità di un “luogo” denso di fratture, politiche e sociali, con una storia unica, quale è Berlino (città a cui l’album s’ispira): la Berlino delle macerie e della ricostruzione, la fumosa e notturna Berlino dei club, del noir cabaret di Lili Marleen, Marlene Dietrich e Veronika Voss,ma anche quella rigogliosa e vitale delle avanguardie. “Where the Wild Oceans End” è quindi una carrellata di fotografie in bianco e nero, istantanee sbiadite che suscitano nostalgia, generano sentimenti contrastanti, un disco di altri tempi, potremmo dire, che, al di là di una produzione limpida e, pur nel minimalismo dei suoni, decisamente curata, sarebbe anche potuto uscire nella seconda metà della decade settantiana.

La voce di Andrea (pure all’harmonium, guarda caso proprio come la mitica Nico, con la quale condivide più di un punto in comune) è l'oscura traghettatrice che ci conduce in questo viaggio nel tempo, fatto di dieci canzoni (nemmeno troppo lunghe, dato che tutto il lavoro dura solo quarantadue minuti), il cui livello qualitativo si colloca fra il buono e l’eccellenza. Complice anche la perfetta sintonia e la coesione createsi con il resto dei componenti della band, in particolare con il binomio Jesper Lehmkuhl/Chris Eckman: il primo chitarrista e co-autore, insieme alla Schroeder, delle musiche, e il secondo tastierista e produttore, entrambi confermati dall’album precedente, secondo la regola “squadra che vince non si cambia!”. Si aggiungono i contributi fondamentali di Dave Allen (basso), Chris Hughes (batteria) e soprattutto dell’ottima Catherine Graindorge, divisa fra viola e violino, capace di inquiete carezze degne di un John Cale, come di rovinosi ed impetuosi duelli con la chitarra, vicini ad un Warren Ellis al cospetto del Re Inchiostro.

Lo sforzo congiunto di questi musicisti porta a composizioni variegate e ricche di sfumature, ma confluenti in un unico flusso sonoro, retto da una solida ossatura elettro-acustica, dove l’interpretazione eccezionale della Schroeder e il lavoro alle sei corde dell’eclettico Lehmkuhl sono i protagonisti indiscussi. Tutti i brani meritano, per questo preferisco soffermarmi su quelli più significativi. L’opener “Dead Man’s Eyes”, per esempio, nel suo procedere lento ed ipnotico, già è in grado di mettere in luce il carisma della cantante, il cui canto si impone in tutta la sua autorevolezza, in tutto il suo splendore: una voce vibrante, sensuale, ma anche forte, imperiosa, che difficilmente assoceremmo al volto d’angelo ritratto in copertina. Le successive “Ghosts of Berlin” e “Until the End” fanno da perfetto contro-altare, trattandosi di struggenti ballate che potremmo ricondurre all’universo poetico di Leonard Cohen. “The Spider”, sulla stessa lunghezza d’onda della prima traccia, ci riporta alle atmosfere rarefatte di una cupa cerimonia, destabilizzata dal fremere delle percussioni, e dai feedback striscianti della chitarra che la sporcano fino a farle assumere toni minacciosi. Una menzione speciale va alla title-track, possente nel suo crescendo finale che culmina con una esplosione dove la voce si fa largo fra le note impetuose e doma il rifrangersi furioso del fragore delle chitarre mischiate al violino, a metà strada fra il Cave più apocalittico ed un certo post-rock tipicamente novantiano. Per non parlare, poi, del blues maledetto di “Rattlesnake”, maestosa e lenta cavalcata sabbathiana, interamente affidata alle chitarre elettriche.

C’è tanto Lou Reed nella voce della Schroeder, anche se poi la sua musica solo a tratti adotta i timbri acidi dei Velvet Underground e le loro ambientazioni morbose, preferendo porsi a metà strada fra il folk appassionato del già citato Leonard Cohen, lo streaming of consciousness della divina Patti Smith e i riti oscuri della sacerdotessa Nico. E a proposito di influenze,  fra le altre tracce troviamo anche “Helden”, la cover di “Heroes” (cantata in tedesco), che tuttavia sembrerebbe costituire principalmente un tributo agli studi dove l’album è stato registrato, quei mitici Hansa Studios dove la stessa “Heroes” prese forma e vita nel 1977. Se nella maggior parte dei casi è un grande ed inutile rischio quello di confrontarsi con brani leggendari che hanno segnato la storia della musica, c’è da dire che la Schroeder se ne esce vincente: pur non toccando le vette raggiunte dalla sua mentore Nico con la riproposizione del classicissimo “The End”, non solo riesce a non combinare pasticci, ma aggiunge un tassello coerente al concept che sta alla base dell’album, senza peraltro spezzarne l’atmosfera.

Insomma, direi che il menu nel complesso è decisamente appetibile: chiaro che da qui non passa il futuro della musica, ma “Where the Wild Oceans End”, preso di per sé, è veramente un ottimo lavoro e se non si merita il massimo dei voti è solo perché in esso non si fa altro che riproporre stilemi già esistenti ed abbondantemente riletti nel corso degli anni. Ma questa operazione di appropriazione viene da Andrea Schroeder perpetrata in un modo speciale: con eleganza, onestà, coerenza ed anche personalità, senza quindi irritare, né suscitare impietosi paragoni. E sostanzialmente stroncando in un sol colpo (un angelo con gli artigli è la Schroeder) tutte le sue colleghe che più o meno recentemente si sono affacciate sul firmamento del rock tinto di rosa. Ascoltare per credere. 

Carico i commenti...  con calma