Ho sempre pensato che l'adolescenza fosse un'età di transizione. Nonostante avessimo un pò tutti la presunzione di conoscere già il mondo, ero consapevole che, con il tempo, gran parte delle mie convinzioni sarebbero venute meno (e che, forse, avrei rinnegato qualcosa). Già, gran parte; perchè, a volte, il ''passato'' ritorna, non senza lasciare una sensazione di piacevole stupore.

È il caso di questo cantautore svedese che passò, colpì, e se ne andò, ripiombando nell'anonimato dal quale era venuto. Quella melodia, quei violini, e quel ritornello in falsetto, erano diventati un tormentone per me e, stranamente, il tutto non suscitava in me quella sensazione di insofferenza tipica di un tormentone... Motivo in più per acquistare l'album quando, 7 anni dopo quel 1999, mi sono ritrovato il caro Andreas Johnson in un negozio di cd usati, a 3 euro in ottime condizioni. Senza pensarci troppo, acquisto l'album, con la speranza che 45 minuti del mio pomeriggio possano farmi rivivere un breve periodo della mia adolescenza.

Me ne bastano soltanto 3 (chiedo venia, non era mia intenzione citare i Negramaro): inserisco ''Liebling'' (secondo di cinque album), e subito la struggente ''Glorious'' mi riporta alla mente ricordi che soltanto una canzone può rievocare.
Ok, basta con i sentimentalismi, è ora di parlare dell'album. La successiva ''People'', canzoncina inespressiva e insignificante, sembra fatta apposta per riportarmi con i piedi per terra; lo sconforto è in parte lenito dal secondo singolo ''The Games We Play'', ballata acustica convenzionale, ma gradevole. Poi, dopo gli sbadigli provocati da ''Do You Believe In Heaven'', la sorpresa: dalla quinta traccia in poi, il disco scorre piacevolmente, complice una inconsueta alternanza di brani alla Mansun di ''The Attack Of The Grey Lantern'' e ''Six'' (''Breathing'' e ''Spaceless''), atmosfere da night club (buona la scelta di utilizzare la tromba muta in ''Should Have Been Me''), incursioni vagamente jazz con ''Please (Do Me Right)'' e ballate pop orecchiabili (''Patiently'').

Chiudono questa insospettabile carrellata ''Safe From Harm'' (la migliore, a mio avviso), e l'acustica ''Unbreakable''. Azzeccata la scelta dei singoli, uniche due canzoni potenzialmente più ''radiofoniche'', ma nell'insieme è un disco più che sufficiente, penalizzato soltanto da un paio di canzoni non proprio all'altezza (gusti personali, naturalmente), e da una voce che, se in alcuni pezzi rende bene l'idea del pathos, in altri appare come quella di un Liam Gallagher fuori contesto.

Considerato il rapporto qualità-prezzo-emozioni, un ottimo acquisto.

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