Una riflessione a priori, un po’ meta-cinematografica (scusate la parolaccia), su Pennywise. Ho tentato inutilmente di convincere gli amici a venire con me a vederlo, ma alla fine sono andato da solo al cinema. Vedendo poi i protagonisti, paralizzati da un terrore aprioristico, di qualcosa che nemmeno si conosce o che si è solo intravisto in un’allucinazione di pochi secondi, ho compreso meglio la grandezza di quest’opera di King.

La paura di It è in limine, è appunto a priori. Il terrore sta nel decidersi o meno a varcare una soglia, ad affrontare le proprie paure. E nei ragazzini che non vogliono calarsi nelle profondità delle fognature per affrontare il loro demone, ho rivisto i miei amici che non vogliono venire al cinema, perché hanno paura di avere paura.

Ecco, questa costruzione a scatole cinesi mi pare la cosa più interessante di It. Che è uno di quei romanzi-film che fanno paura anche senza vederli, per il concetto che hanno alla base: il clown, la figura simbolo della gioia fanciullesca, deturpato e deformato fino ad assumere i tratti di un demonio delle fogne. Il terrore è quindi concettuale prima che visivo (e molto prima che filmico, va detto): le persone hanno paura di guardare il film perché temono di ritrovarsi improvvisamente bambini, indifesi, senza armi, ad affrontare un incubo che s’è fatto carne.

La grandezza, e al contempo la semplicità, di questo assunto sono sufficienti a far funzionare una pellicola. Funzionava quello del 1990, che non era propriamente di qualità sopraffina, figurarsi questo. Ma vorrei fare dei distinguo: il film funziona perché l’idea di Pennywise è troppo grande, troppo geniale. Ogni volta che è comparso in scena ho avuto i brividi. Diverso dire che questo It di Andrés Muschietti sia un grande film. Non lo è. È un film dignitoso, lineare, che dà spazio nel modo giusto (e anche più facile) all’idea straordinaria di Stephen King.

Se vogliamo, sono più gli aspetti criticabili che le grosse migliorie apportate. Banalmente, effetti speciali e fotografia non sono paragonabili a quelli di 27 anni fa; ma anche la regia è davvero buona, questo va riconosciuto a Muschietti. Il regista ci mette molto impegno e il risultato è sicuramente apprezzabile. Ma se guardiamo alla struttura del film, cercando di ragionare lucidamente e senza pensare a Pennywise, non possiamo non riconoscere l’esile e ripetitiva scansione.

In sostanza, una sequela di jump scares, e per di più telefonati, lenti, prevedibili. Da questo punto di vista, il film non tenta nemmeno di inserirsi con un senso filologico nelle tendenze dell’ultimo periodo in ambito horror. I punti di forza, più o meno riconosciuti, di lavori come It Follows, Babadook, The Witch stavano proprio nell’evitare la banalità ormai sconfortante dello spavento a sorpresa.

A tratti anche Muschietti sembra cercare di scansarsi, privilegiando le atmosfere, le costruzioni cromatiche e i giochi estetizzanti. Ma alla fine lo spavento spinto, caricato con musiche iperboliche, torna sempre. E il reiterarsi sempre uguale (cioè con variazioni minime, esteriori e non di concetto) di questo schema alla lunga risulta logorante e toglie efficacia. Molto meglio quindi la mezz’ora finale, quando le dinamiche cambiano e i ragazzi smettono di essere passivi.

Ripeto, un film dignitoso. Anche la costruzione dei personaggi non è da buttare. Rispetto al 1990, e sulla palese scorta di Stranger Things, vanno sempre in bici e dicono parolacce. Qualche risata sicuramente scappa, soprattutto per le battute spinte di Richie (che non a caso è interpretato da Finn Wolfhard di Stranger Things), ma il sarcasmo risulta spesso eccessivo, troppo sessualmente connotato, per dei ragazzini di 13 anni. L’ironia è manna dal cielo in un film oggettivamente pesante come questo, ma andava calibrata meglio.

Anche i ritratti personali funzionano, ma non sono sicuro di poter dire che siano migliori rispetto a quelli del 1990. Così come, ed arriviamo al cuore di tutto, il Pennywise di Bill Skarsgård non è paragonabile a quello di Tim Curry. Per carità, funziona, ma ha bisogno di strepitare, di avvicinarsi tarantolato alla preda, di sfoderare fauci enormi. Non è quasi mai lui da solo a fare paura. La sua immagine viene caricata usando braccia amputate, macchie di sangue, amplificazioni varie: il clown è gigante, ha una testa enorme, fauci più spaventose, denti più aguzzi. Insomma, si amplifica tutto, di fatto snaturando l'essenza del pagliaccio ballerino. Oppure viene affiancato da altri mostri: ci sono zombie, quadri inquietanti che prendono vita, acque di fogna piene di cadaveri. Stampelle per sostenere un clown meno efficace del previsto. La rappresentazione delle paure dei protagonisti è forse la parte più debole del film. In sostanza si aggiungono gli zombie e mostri che compaiono qua e là. Lo stratagemma può anche andare, pur essendo meno sottile rispetto alle piccole inquietudini del film precedente, ma così meccanicamente reiterato diventa stucchevole.

Se a tutto ciò aggiungiamo che la questione morale dell’opera, pur essendo apprezzabile non è propriamente fresca e nuova (la paura dei bambini eccetera), si capisce come questo film sia più un caso da analizzare socialmente che un grande capolavoro cinematografico. Come per i ragazzini con Pennywise, tutto si gioca preliminarmente. Quando poi ci si dà in pasto alle fauci del mostro, ci si rende conto che era la nostra paura a nutrirlo e amplificarlo. Così per il film It, la paura ha il suo acme prima di entrare in sala: il terrore di provare terrore, di tornare ad essere dei bambini indifesi che si addentrano nella dimora del mostro, senza armi.

6/10

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