Anche io ho visto il film documentario su Ian Curtis e i Joy Division; si intitola Control, il regista è Anton Corbijn.
Mi è piaciuto.
Un film girato in bianco e nero, che descrive più che la biografia lo stato d’animo di un ragazzo sensibile e incline alla depressione, impantanato nel mood senza sbocchi della Greater Manchester di fine anni settanta.
Un racconto asciutto, senza concessioni alla leggerezza, che espone la nascita dell’estetica post-punk, e le angosce di una generazione in cerca di una identità.
Il film ha sempre lo stesso registro, i fatti sono tutti importanti e sono tutti insignificanti (come lo sono per la vita di un ragazzo).
La formazione culturale, la malattia, le relazioni sentimentali, gli amici, la depressione, fino all’epilogo drammatico della morte di Ian, sono fatti inanellati in un racconto orientato sempre sullo stesso orizzonte che sembra non avere futuro.
I palchi da dove si esibiscono i Joy Division sono piccoli, così come le platee, le case sono fatte di stanze di pochi metri quadrati, dove tutto è costretto all’intimità, le strade sono le strade strette dei quartieri residenziali del proletariato inglese, e i paesaggi aperti sono rare esperienze che si consumano velocemente.
La morte di Ian è anche la morte di un sogno d’amore impossibile e fuori controllo, alla mercé di una depressione che non dà scampo, di una vita fatta di scelte improvvise che la fanno crollare sotto il peso della consapevolezza di non essere abbastanza adulto per reggersi in piedi da solo e soddisfare le aspettative di tutti.
Il linguaggio del film è pacato e claustrofobico, una didascalia ai brani suonati dai Joy Division, privo di fronzoli nella narrazione cinematografica, minimale e ossessivo come la disperazione messa in scena sui palcoscenici di Ian Curtis.
Nel complesso molto efficace.

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