"Prima di decidere di farmi prete avevo preso solo un’altra decisione con eguale convinzione: quella di uccidermi

Il prete è un uomo estremo. Lo è sempre, anche quando ha abbandonato i suoi ideali e i suoi sogni. Il suo protendersi dentro il mistero lo pone suo malgrado al di sopra della mediocrità e perfino quando di per sé sarebbe un vigliacco e un mediocre, come don Abbondio, il suo carattere sacerdotale ne fa un mediocre estremo, un campione di mediocrità, per così dire.

Per questo è difficilissimo parlarne: si rischia di usare solo le tinte forti della tavolozza, come in un quadro espressionista, così che dopo poche pagine il personaggio non risulta più credibile, sospeso tra l’agiografia e la macchietta. Per questo però il prete è sempre un personaggio affascinante, ricettacolo di contraddizioni, paradosso a se stesso, sospeso tra la Grazia che lo ha afferrato e l’abisso che è chiamato a redimere, tra la povertà della sua vita e l’enormità della sua vocazione: conformare la sua vita al mistero che celebra, così recita la formula della promessa fatta nel giorno dell’ordinazione, in due parole essere Gesù, una sfida che nessuno può accettare serenamente.

Naturalmente la storia della letteratura è piena di preti, proprio per questo fascino intrinseco che portano in sé, e molti di questi ovviamente sono preti indegni, come Abram Singer, il protagonista di questo bel romanzo di Antonio Monda. Penso a Bernanos e Graham Greene, ma penso anche al cinema, in particolare a un capolavoro dimenticato come “lo spretato” di Leo Joannon. Purtroppo è raro trovare, tanto nella letteratura quanto nel cinema, preti credibili e quando si parla di preti indegni è rarissimo che si elevino al di sopra dello spessore della pagina su cui la storia è scritta, così che sono molte di più le macchiette dei personaggi veri.

Bene, non è questo il caso: Abram Singer è un personaggio vivissimo, tanto vivo che potrei giurare di averlo conosciuto. Io, credente, posso identificarmi in lui e leggendo le sue riflessioni (il romanzo è tutto scritto in prima persona, in soggettiva, come una lunga meditazione del protagonista) posso facilmente riconoscere forse non me stesso, ma un me che sono stato, o che avrei potuto facilmente essere, se l’imprevedibilità della vita in certe svolte non avesse giocato del tutto a mio favore.

Abram Singer non ha paura delle sue contraddizioni, intraprende ogni giorno una lotta titanica per non concedere nessuno sconto né al Dio che lo assedia né alla carne che lo tiranneggia, e il prezzo da pagare per tentare di conciliare in sé gli opposti è vivere con una ferita immensa scavata nel petto che mai si rimargina e spesso espelle pus e sangue in una continua suppurazione: “Padre nostro, se non ti amassi ti odierei profondamente, e forse a volte lo faccio, perché tu sai che ti sto amando anche in quel momento. Padre che hai sacrificato tuo figlio, padre che ti sei fatto carne e hai sentito tutto quello che la carne desidera e pretende. Padre dei peccatori e degli assassini. Padre dei falliti e dei traditori. Padre di mio padre, che hai visto amare mia madre e concepire questo corpo indegno. Abbi pietà del mio furore da angelo caduto”. Anzi, persino il suo peccato proclama la magnificenza di Dio ed esprime una rivolta contro il peccato principale, la maggiore indegnità, che è quella della mediocrità “il mio peccato era una ribellione alla mediocrità dell’esistenza che mi condannava a non vederne l’intima struggente meraviglia”.

La tensione tra l’abbassamento scelto e voluto e la bassezza cinica e amorale, tra una gloria continuamente desiderata e la divina umiltà che sola è capace di esprimerla, è la cifra più costante dell’anima del protagonista. In questo, oso dire, Abram Singer è inconfondibilmente americano e newyorkese; per quel poco che conosco la società americana e la Chiesa che vive negli USA ritrovo infatti la medesima contraddizione. Manca agli Stati Uniti un Charles de Foucauld, un San Francesco, o anche soltanto un Chesterton, capace di gridare la bellezza di tutto ciò che è piccolo nella città dove tutto è smisuratamente grande, ed attraverso questa piccolezza cogliere la magnificenza della vita.

A causa di questa mancanza, l’aspirazione alla grandezza del protagonista non si riesce a risolvere in vera umiltà, non trova la sua espressione nella celebrazione del quotidiano, del feriale. Può sembrare un paradosso, ma se il prete di questo romanzo è un estremo peccatore è perché vorrebbe essere un santo estremo e gliene mancano però gli strumenti. Non per nulla Monda pone alla fine del romanzo l’assioma caro ai padri del deserto: “Sia Dio che il maligno vogliono che tu diventi santo. Solo che il diavolo vuole che tu lo diventi subito”.

Certamente questo romanzo non poteva che essere ambientato a New York, la New York della fine degli anni ’70, quando iniziava il punk e l’utopia buonista californiana si rivoltava in un mare sordido di cinismo e violenza. È la New York di Lou Reed più che di Patti Smith, di “Taxi Driver” più che di “Manhattan”, vista più nella sua disperazione che nel suo cinismo intellettuale, che anzi proprio l’incapacità di essere cinico fino in fondo è ciò che caratterizza il protagonista. Di quella città conservo solo spunti letterari, non ho il privilegio di viverci come Monda, quindi non voglio esagerare nel sottolineare ciò che del resto è ovvio, ma se il romanzo è parte di un grande affresco che intende raccontare il ventesimo secolo della City resta il dato, per niente scontato, che il suo protagonista sia un prete.

Da questo punto di vista, quindi, il romanzo è sicuramente anche una riflessione sulla Chiesa Cattolica americana nel suo complesso, e attraverso Singer forse se ne può vedere da una parte l’ansia di incidere con il Vangelo nella società e dall’altra l’incapacità di accettare l’irrilevanza a cui questa sembra averla ridotta. “Chi ci vede dall’esterno non ha idea dei nostri gusti, dei nostri piaceri, dei momenti in cui viviamo nel mondo (…) il mondo non potrà mai amarci per quello che siamo e rappresentiamo (…) Quello che il mondo non capisce e non riesce ad accettare è che siamo felici: è questo lo scandalo, ed è un motivo in più per essere detestati. La nostra felicità è oggetto di derisione, di disprezzo, e nella migliore delle ipotesi siamo visti come degli illusi, da compatire”.

L’irrilevanza dello spirituale, che era avvertita ancora più forte negli anni ’70, in Europa portò alla sopravvalutazione del sociale, che finì in tanti preti con il sostituire lo spirituale, mentre negli USA portò ad una sorta di esasperazione del sesso (come si vede nei film di Woody Allen ad esempio, dove il sesso assume quasi una dimensione religiosa). Non per nulla oggi nella Chiesa americana è esploso il tema in tanti aspetti positivi e negativi che vanno da un grande impulso dato alla cosiddetta “teologia del corpo” alla manifestazione, in frange nemmeno tanto piccole, di vera sessuofobia e moralismo puritano. Per non parlare ovviamente degli scandali ora sotto gli occhi di tutti.

Ma Monda è troppo acuto e profondo per farsi intrappolare negli stereotipi e il protagonista resta un personaggio verissimo nei suoi conflitti interiori che parlano anche all’uomo contemporaneo. “It’s hard to be a saint in the city” cantava “il boss” solo qualche anno prima del periodo in cui è ambientata la vicenda e in fondo si potrebbe leggere tutto il romanzo in questo modo, come una domanda terribile e inquietante: è possibile essere santo a New York? È possibile essere santo nel mondo di oggi, nella città che abbiamo costruito? Basta vedere che tutte le volte che presenta modelli di preti positivi, realizzati, Monda li pone altrove, in una mitologica missione, lontano dalla città, come in fuga dalla contemporaneità.

È anche troppo facile allora leggere la storia d’amore con Lisa come un tentativo di redenzione laica, il sesso come una rivolta contro la morte che sembra imperare dappertutto nel romanzo. “Quando amo Lisa non mi sento morto, non mi sento morto per niente”. Ci piace immaginare che sia in fondo la domanda che inquieta ogni prete cattolico, nella Grande Mela come altrove: è giusto, è onesto verso se stessi e la vita aspirare ad una redenzione più alta o tutto ciò a cui possiamo aspirare non è al massimo la celebrazione della vita, che trova nell’esplosione della carne il suo punto più alto?

I versi di Emily Dickinson citati in uno dei punti di maggiore tensione narrativa esprimono benissimo questo paradosso: “Poiché l’amore è vita/ e la vita è immortale/ se di questo tu dubiti/ non ho altro da mostrarti/ amore/ che il Calvario”. Si spiegano così le ossessive inquietudini del protagonista, quella sua incapacità di accettare sia lo stereotipo in cui il suo ruolo vorrebbe costringerlo sia la sua condizione di outsider consapevole, di cercatore paradossale dell’amore.

Proprio questo desiderio esasperato di santità è alla fine la molla che chiude Abram nell’imbuto del suo peccato. Egli è un peccatore perché ha voluto essere santo con le sue sole forze, invece di ricevere la santità in dono. “il mio peccato più grande era quello di non mettermi in condizione di essere aiutato”. Non ha capito quella che è una delle prime verità del Cristianesimo: nessuno è santo da solo. Ha tentato di innalzarsi su un impossibile pinnacolo ed è quindi rovinosamente caduto e poiché vuole salvarsi da sé non può nemmeno accettare un perdono. “C’è una domanda importante che devo farle – gli chiede il vescovo in quel colloquio che è l’ennesima occasione di redenzione offerta dalla Grazia – lei è pronto a chiedere perdono?” ma Singer resta muto, il suo disprezzo di sé è talmente forte da impedirgli di gettarsi nelle braccia protese del Padre e per l’ennesima volta resta chiuso in se stesso, abortendo ancora una volta l’occasione di un Incontro. Per questo è un uomo in fondo incapace di vera vita interiore. Anche le sue meditazioni, per quanto profonde, restano su un piano sostanzialmente estetico e non hanno il potere di muovere davvero la vita. “Ho paura della quiete, del silenzio, della pace. Della contemplazione, della meditazione (…) Ho paura della vita stessa quando si ferma per essere amata, goduta conosciuta”.

Forse è per questo che i pensieri di Singer girano ossessivamente in cerchio. Come un cavallo che rifiuti l’ostacolo continua a ripetere il percorso e continua a bloccarsi senza fare il salto che solo lo potrebbe liberare. Da questo deriva il carattere cupo di tutta la narrazione: non c’è happy end, non c’è il sorriso finale della Grazia che si affaccia dal cielo e che sola potrebbe portare luce in un panorama oscuro, anzi il romanzo si chiude nel tentativo disperato di raggiungere il sonno nella città che non dorme mai, come se l’oblio, la dimenticanza di sé, fossero l’unica salvezza e l’unico perdono.

La fede nasce dall’incontro e per questo Abram Singer non ha fede, perché resta incapace di un vero incontro. Come un uccello intrappolato in una cupola lo osserviamo dibattersi, tentare tutte le apparenti uscite senza risultato. Nemmeno quello con Lisa è un incontro vero: al centro della sua attenzione non c’è lei, ma la propria passione. Certamente Lisa lo ama eppure lui continua ancora ad interrogarsi, e con ragione, se il suo amore per lei sia autentico. Non c’è un eros redentivo, non esce mai davvero da se stesso ed è questa la ragione della sua solitudine e ultimamente della sua dannazione.

“New York è una città di gente sola” dice ad un certo punto, eppure la sua dannazione forse sta proprio in questo: che non accetta la sua solitudine, non è capace di farne una energia positiva. Forse allora la cifra del romanzo sta nel drammatico ed epico resoconto dello scontro tra Alì e Foreman, dove vince chi soffre di più. Quanto è disposto a soffrire Singer? Quale prezzo è disposto a pagare per uscire da se stesso e aprirsi all’amore? All’inizio del romanzo padre John, che forse è quello che meglio di tutti ha conosciuto l’anima del protagonista, lo ammonisce a proposito della solitudine: “Trasformala in forza e guarda sempre dentro di te, senza averne paura”, ma questi confessa la sua impotenza: “Io ci ho provato padre John e ci credo ancora, ma non ci riesco. E ogni volta scorgo l’abisso”.

Ha il desiderio della fede Singer, questo sì, ma questo desiderio non riesce mai a raggiungere l’intensità sufficiente a farlo sfuggire alla forza gravitazionale dell’egoismo per lanciarlo davvero nello spazio dell’amore. Non c’è un singolo gesto che egli compia davvero disinteressato ed è per questo che nel suo desiderio di Dio egli manca il bersaglio e ricade continuamente su se stesso. Eppure suscita compassione in questa sua continua lotta. È un perdente, ma un perdente che non si può non amare, e se egli disprezza se stesso, neppure per un secondo il lettore è portato a giudicarlo. Troppo estremamente umano per risultare antipatico, troppo “uno di noi” per condannarlo.

Resta da riferire di una narrazione nervosa, fratturata, suddivisa in mille piccole scene che faticano a seguire un filo coerente nei continui rimandi avanti e indietro delle reminiscenze del protagonista. Sembra quasi un concept-album, come quelli che andavano di moda negli anni ’70, un disco costruito di canzoni tenute insieme da un filo narrativo piuttosto tenue che hanno però una loro dignità autonoma. Il linguaggio scelto, quello dell’introspezione, è una sfida per il lettore: funziona se scatta un meccanismo di identificazione con il protagonista, ma in caso contrario può risultare pesante e spingere a desiderare un po’ più di azione, accidenti in fondo la trama potrebbe essere descritta in tre righe! Ma se uno riesce a indossare i panni di Abram Singer allora il romanzo non lascia scampo: è avvincente come un thriller e fino all’ultimo stai lì a chiederti chi vincerà nel titanico duello per il possesso di quest’anima inquieta.

Eppure non bisogna cedere alla fretta di leggere e perfino un lettore bulimico come me deve forzarsi a procedere lentamente. Questo è un libro da bere a piccoli sorsi, non come un buon whisky, ma come un bourbon da quattro soldi, di quelli che si vendono nei locali cari a Tom Waits e che se li mandi giù tutti d’un fiato ti bruciano gola e viscere. È un libro da bere a piccoli sorsi perché le sue gemme sono nascoste e a passarci sopra di fretta si rischia di farsele sfuggire, è un libro da bere a piccoli sorsi perché è duro e cupo, perché non offre risposte ed esige dal lettore che se le dia da sé, senza sfuggire il confronto.

In fondo ciò che Monda chiede al lettore è di fare ciò di cui il suo protagonista non è capace: “Noli foras ire, in te ipsum redi” (non uscire fuori, rientra in te stesso), per questo il suo libro è scomodo e disturbante.

Per questo è prezioso.

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