È il suono che riecheggia fra gli angusti pertugi delle montagne caucasiche. È l'arpeggio che scivola, con passione e delicatezza, in mezzo agli animali portati al pascolo dai loro mandriani. È il timbro soffuso che rimbalza, passionale e nostalgico, fra le conche delle valli verdi e fertili, mentre vecchi dal volto segnato si muovono incerti, appoggiati ad un bastone, osservando rapiti le tinte delicate del cielo. È la voce di un popolo che ha sofferto, un popolo più volte ripudiato e rinnegato, che si affida alle memorie per non dimenticare, che ora chiede giustizia.
Ma è anche un libro da sfogliare, nonostante le pagine ingiallite, fragili e un po' ammuffite. È la storia tramandata dagli anziani ai giovani, di quelle colorate e variopinte, in un assolato giorno di primavera. È il perseverare degli usi e dei costumi, delle tradizioni, in bilico fra il sacro ed il profano. Ed è anche la voglia di vivere, la voglia di far schiudere quel cofanetto prezioso in cui, per troppo tempo, si erano conservati i segreti ed i rituali di un paese misconosciuto.
"Every Day Is A New Life", Arto Tunçboyaciyan. Dietro questo nome impronunciabile si nasconde uno dei tanti geni ignorati dell'ultimo ventennio, un incredibile polistrumentista proveniente dall'Armenia -paese montuoso, confinante con la Turchia, che guarda sul Mar Caspio, tristemente noto per il genocidio della Prima Guerra Mondiale-, che per anni ed anni ha vissuto nell'ombra, componendo opere meravigliose nell'indifferenza generale, con la sola compagnia dei suoi fidati strumenti (si passa dal mandolino al sitar, al pianoforte, alla chitarra, alla tastiera e ad altri strumenti indigeni). In realtà, se le sue produzioni singole sono passate inosservate dai più, molti di noi, quasi inconsciamente, l'hanno sentito alle prese con flauti di Pan, bottiglie di vetro mezze piene, addirittura il proprio petto nudo. Ed è stato nel 2001: la ghost track all'interno di "Toxicity", album-simbolo dei System of a Down -armeni come il Nostro- si intitolava proprio "Arto" ed era suonata in gran parte da Tunçboyaciyan, abilissimo a regalare al capolavoro dei losangelini un deciso collegamento con le radici del loro paese d'origine.
Certo è che questa collaborazione risulta essere gran poca cosa, alla luce dell'intera produzione solista, iniziata nel 1983, un susseguirsi di splendidi affreschi ed incantevoli spaccati di vita quotidiano/contadina, amorevolmente cesellati all'interno di una strumentazione oculatamente selezionata, in grado di dare vita ad un turbinio di percezioni acustiche e visive davvero emozionanti.
"Every Day Is A New Life" è l'ennesimo, grandissimo lavoro di Arto: uscito nel gennaio del 2001, un paio di mesi prima del fratello "Aile Muhabbeti", è una grande raccolta di racconti e leggende popolari, musicate ed ammodernate dal piglio inventivo di Tunçboyaciyan. È un flusso continuo di note che, come una cascata, avvolge l'orecchio dell'ascoltatore per trasportarlo in una dimensione parallela, a tratti spumeggiante nella sua vitalità, talvolta sgargiante, il più delle volte riflessiva e meditativa. Senza, per questo, scivolare nella noia intellettuale e negli inutili barocchismi della new age.
Così, si entra in ipnosi con il sofferente arpeggio di mandolino che apre l'eterea "Broken Arm", una sorta di invocazione divina, colma di accecante malinconia, che viene accompagnata più volte da un pianoforte prima di sfociare in una serie di cori baritonali ascendenti, dalla possenza liturgica. Il tunnel della sofferenza, d'incanto, si trasforma in una serra colorata, che simboleggia la speranza di una rinascita fisica, ma anche spirituale, un metaforico invito a trascendere le difficoltà della vita, con la determinazione della saggezza e dell'istinto interiore. Ci sono perciò i cinguettìi allegri dell'esoterica "Take My Pain Away", un viaggio balzellante all'interno delle malghe del Caucaso tra campanelli, flauti e nenie strampalate, cantante rigorosamente in armeno: il giocoso sitar -che sembra uscito da una session jam degli Architecture In Helsinki- che conduce per mano, in un giochino infantile e sbilenco, la struttura di "Simple Message"; o ancora, il seducente aroma che sprigiona il mandolino di "Mystical Pine Tree", una passeggiata fra i mercati a cielo aperto della Mezzaluna Fertile.
E ancora, l'importanza primordiale della preservazione delle antiche usanze, in un continuo dialogo con le giovani generazioni: i ritmi tribali, oscuri ed occulti, che fluiscono nella lacerante tromba di "Wooden Leg Grandpa", o il flauto di Pan, appena accennato, del folk, danzereccio e sincopato -c'è addirittura una fisarmonica!- di "Baby Elephant", un abbraccio che unisce l'antico al nuovo. Ma c'è anche lo spazio per due dediche sincere e commoventi, che colpiscono dritte al cuore per la loro intensa spiritualità: dapprima la filtrata tristezza dei fiati di "I Miss You Every Moment My Brother", il vertice di tristezza dell'intera opera, successivamente la celestiale "Heaven For My Father", un tripudio di sinfonie mediorientali che si snodano attorno ad un esoscheletro pianistico di fattura quantomai pregevole.
Un disco per orecchie ben allenate, certo, un disco leggero e sofisticato: di certo, un disco che ha tutti i tratti comuni per essere definito, senza indugi, incantevole. L'ideale per chi vuole scoprire una musica diversa, o semplicemente viaggiare in un angolo di Terra ancora incontaminato.Carico i commenti... con calma