Con una copertina naif degna dei gruppi progressivi di Canterbury, quindi fuorviante, nel 1974 si propone per la terza volta sul mercato discografico la Atlanta Rhythm Section, sestetto della Georgia statunitense dedito ad un country blues rock sanguigno, seppur condotto con classe sopraffina e sempre maggiore eleganza col passare degli anni.
Ancora non siamo all’optimum, ma cominciano a fioccare le canzoni genuinamente memorabili. Mi riferisco ad esempio al rotolante, celebrativa, irresistibile incipit “Doraville”, inno alla città presso Atlanta che ospita le loro vite e lo studio di registrazione del loro produttore, dove perciò essi sono continuamente piazzati quando non in giro a suonare.
Alludo allo stesso modo alla lirica e appoggiata “Close the Door”, coi due chitarristi Barry Bailey e J.R. Cobb (alla slide) che la nobilitano colloquiando con continui botta e risposta ficcanti, misurati, melodici, godibilissimi. Per qualche sconosciuta ragione però tale brano finisce con un… rutto!
Sto parlando anche della conclusiva “Who You Gonna Run To”, un boogie blues scolastico se non fosse che compare qua e là qualche elegante accordo jazz e non costituisse veicolo perfetto per la nodosa, virtuosa solista del formidabile Bailey, il quale sa prendere ogni nota con l’arguzia e la forza e la varietà dei grandi, nonché con un suono che si impone per spessore e ricchezza di sfumature.
Rimando infine al primo capolavoro di carriera “Angel”, una ballata a tempo di boogie dalla melodia suadente nella quale il fuoriclasse alla chitarra stampa il primo solo autenticamente indimenticabile. L’episodio dura cinque minuti abbondanti ma nei concerti, quando c’era Barry, arrivavano anche a nove o dieci. Il suo solo prende il via a metà canzone, sembra esaurirsi dopo un minuto in un acquietamento generale ma invece riparte alla grande, prima con un grande giro di basso e poi con la sezione ritmica che poco più in là si mette in tre quarti, sostenendo ancor meglio il grande solista e la sua Les Paul, intenti a dipingere meravigliose arcate melodiche.
Episodi quasi country rock e ballate, una con tanto di orchestra, si alternano con i più canonici rock blues tipici degli stati del sud, certe vote più rocciosi, altre più rilassati. La produzione pecca ancora un tantino di incisività, una carenza che sarà messa definitivamente a posto, ed alla grande, tre o quattro anni (e dischi) dopo.
Ma è parimenti piacevole questa “limitatezza” per chi, pur oramai abituato alle produzioni assurde e bombardone dell’era digitale, trova edificante indugiare in queste vecchie musiche di mezzo secolo fa, le quali facevano a meno di compressioni esasperate, transienti micidiali negli attacchi, cannonate di batteria e terremoti di basso.
Primo lavoro di carriera per la ARS a meritarsi 4 stelle.
Elenco e tracce
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