Quanto sei disposto a pagare per la tua libertà?

L’avessi saputo prima che Van Christian mi avrebbe urlato in faccia una domanda del genere, avrei sborsato ben più di 15.000 lirette per portarmi a casa «Under the Blue Marlin», secondo album dei Naked Prey uscito nel 1986, così da assicurarmi un pezzo di libertà ben più cospicuo.

Di chi siano Van Christian ed i Naked Prey e dell’affezione che provo verso di loro, dissi in altra sede e do per scontato che se ti stai prendendo la briga di leggere queste poche righe, tu sappia vita, morte e miracoli di costoro.

Altrimenti - ed in estrema sintesi - basti sapere che i Naked Prey furono compagni di strada e pure qualcosa di più per Dream Syndicate e Green On Red nei tempi in cui l’alt-rock a stelle e strisce si chiamava Paisley Underground, solo che suonavano molto più duro e guadagnarono molta meno visibilità.

E se dei Dream Syndicate plagiarono la copertina per il disco d’esordio, limitandosi a virare il colore dal verde all’arancione, adducendo a propria discolpa che i tipi che si occupavano della grafica alla Down There non è che avessero gran fantasia, ai Green On Red si ispirarono per quella del successivo, così che la corte impressa su fronte e retro di «Gravity Talks» rassomigliava fin troppo a quella su fronte e retro di «Under the Blue Marlin»; poi, se latitasse l’immaginazione di Van o se in quel modo volesse sentitamente omaggiare i talentuosi amici e colleghi, era questione di ben poco conto e di cui fregarsene senza troppi scrupoli, perché ogni tanto capitava pure che la copertina non facesse il vinile.

E allora, se si passava a parlare di musica, era tanto vero che i Naked Prey non inventarono nulla, quanto era vero che dal loro disco d’esordio trassero una cospicua manciata di quei semi che gettarono nel fertile terreno del Paisley e che da lì a qualche mese germogliarono nel rock del deserto, giusto per rimanere in tema di generiche definizioni di quella che si chiamava, si chiama e si chiamerà per sempre Americana: volendo fare i nomi, Giant Sand e Thin White Rope, e con i Giant Sand i Naked Prey condivisero pure la terra natìa e qualche musicista.

Rimane quel dettaglio non indifferente che i Naked Prey suonavano molto più duro, non solo dei Dream Syndicate e dei Green On Red, ma pure rispetto a Giant Sand e Thin White Rope.

Per afferrare il senso di quel “molto più duro”, l’unica cosa era calare la puntina sul solco iniziale di «Voodoo Godhead» e mettersi a fare headbanging per un paio di minuti, teorizzando che magari John Garcia e Josh Homme, quando poi formarono i Kyuss, quel riffone se l’erano stampato in mente in modo indelebile.

Che «Voodoo Godhead» fosse una ripresa dal precedente repertorio dei Naked Prey pure stavolta era questione di ben poco conto e di cui fregarsene senza troppi scrupoli, perché quel tiro fenomenale pervadeva ogni singolo brano, che fossero rock’n’roll straccioni come «The Ride» o «Rawhead» per non dire del rifacimento di «Dirt» - proprio quella degli Stooges - oppure energiche ballate come «A Stranger (Never Say Goodbye)», «Come On Down» e «Fly Away», o ancora strana roba hard-psycho-blues come accadeva di ascoltare in «How I Felt That Day».

Vero pure che «Under the Blue Marlin» non valeva l’esordio, perché qui e là il tiro rock’n’roll sembrava più una sassaiola fuori bersaglio e nei momenti di requie difettava talora l’allegra baldanza che caratterizzava «Billy The Kid III», per dire.

Ma era questione di ben poco conto e di cui fregarsene senza troppi scrupoli, ancora e per l’ultima volta, almeno per me andava sempre così.

Perché poi, in finale, arrivava Van ad urlarmi in faccia quanto fossi disposto a pagare per la mia libertà e, per me che avevo diciott’anni, la libertà erano i primi viaggi in macchina, con quel brano registrato più e più volte sulla musicassetta, e la musicassetta nell’autoradio, e far finta di essere alla guida di quelle decappottabili lungo una strada desertica, e blablabla.

Uno dei pezzi più grandi e sanguinanti del mio cuore.

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