Non è mai troppo tardi” è il proverbio appropriato da associare a questi Storm, quintetto bolognese attivo nella seconda metà degli anni ottanta, ma al tempo non approdato ad uscite ufficiali sul mercato. Sovente le cose, però, si mettono a posto, basta aspettare… e questa recente pubblicazione (2024) s’incarica di fare giustizia, provvedendo a diffondere formalmente quel paio di demo allora autoprodotti dal gruppo in forma di audio cassetta.

Il libretto del cd in questione è esplicativo a riguardo: il nastro con il primo demo “Don’t Waste Your Time”, corredato di quattro brani, aveva visto la luce nel 1988, mentre il demo successivo e finale “Hard Times”, con sei brani, l’aveva seguito due anni dopo nel 1990, non molto prima che la formazione si disperdesse, a quanto pare in maniera definitiva.

Il motto degli Storm, lo si legge nel loro logo, è Audience Oriented Rock, una variazione con licenza poetica del ben noto Adult Oriented Rock (acronimo AOR, per i non musicofili), un sottogenere coniato in America ma con diversi esponenti anche in Inghilterra, ed una categoria musicale che si può inquadrare lestamente in tosta e melodica, forte e dolce, irruenta ma anche ruffiana e accessibile. Ai tempi degli Storm l’AOR aveva la sua stagione d’oro furoreggiando al di là e al di qua dell’Atlantico con nomi come Toto, Boston, Journey, Foreigner, Bryan Adams, Heart, Starship, Survivor… tutta gente che ha smerciato milioni e milioni di dischi.

Proprio gli Heart, quintetto di Seattle condotto da due sorelle la cantante Ann Wilson e la chitarrista Nancy, sembrano essere stati la maggiore ispirazione di questi Storm, almeno a livello di look. Guardate a tal proposito la foto dell’album, coi nostri agghindati perfettamente nel ruolo: il batterista con i giusti bicipiti all’aria, chitarrista e bassista contornati dagli allora canonici riccioli alla Bon Jovi giovane, tastierista e cantante impeccabili nel richiamare le grazie (talentuose) delle sorelle Wilson.

E la musica? Si, è hard rock melodico all’americana di quel tempo, coi suoi pezzi decisi ma senza esagerare e le sue ballate scandite e romantiche, con un’eccellente vena sia compositiva che di arrangiamento. Su tutto, è dominante il contributo della cantante Mary Boschi: il suo stile quasi operistico (appare evidente la sua formazione artistica in questo senso) dona agli Storm la loro principale peculiarità. La passionalità, l’intensità quasi gotica dell’emissione di Mary si appoggia alle ottime trame della chitarra, strumento guida dell’insieme come quasi sempre accade nel rock, e parimenti ai barocchismi e alle “gonfiature” delle tastiere, generando un AOR lirico e drammatico, fremente e convincente.

La cesura fra i due demo, la distanza di due anni fra il primo e il secondo, il diverso momento e il diverso studio di registrazione utilizzato, si sentono tutti. La qualità motivica è presenza comune ad entrambi, ma le prime quattro canzoni appaiono più naïf, più spontanee, più schiette rispetto a quelle del secondo demo, meglio prodotte, più “rimasticate” e arrangiate, in definitiva suonate e cantate con più cura e con macchine migliori. Questo, ripeto, a parità di valore melodico e tematico: ciascuno può decidere quale dei due momenti degli Storm preferire.

Don’t Waste Your Time”, la canzone che porta titolo ed incipit all’album, esordisce con un ouverture di chitarra solista che presto scivola in un riff tanto semplice quanto efficace; per poi lasciare il proscenio al canto, prima interlocutorio nelle strofe, poi esplosivo e memorabile nel ritornello. Curioso ed ispirato l’epilogo, un arpeggio ossessivo di tastiera che si insinua fra le sonore sincopi della chitarra, verso la sfumata finale.

I’Don’t Know” non potrebbe essere più a contrasto: un melodiosissimo e “gonfio” arpeggio di pianoforte ed archi, dinamicizzato dagli stacchi di chitarra e basso all’unisono; siamo decisamente dalle parti dei Journey come senso melodico e spazialità fra gli strumenti. Su questa base, di nuovo la voce di Mary tergiversa nelle strofe per poi deflagrare, drammatica e inimitabile, nell’imperioso ed evocativo ritornello. La corda si tende (ritornelli) e si rilascia (le strofe, anche il solo di chitarra) a marcare un episodio molto denso e teatrale.

Shock Me” è invece ben più solare, marcata da un arpeggio di elettrica in stile Boston e dai fraseggi spigliati del canto, che poi si risolvono in un convincente ritornello che passa dal modo minore a quello maggiore: un gioiellino di rock melodico, a precedere la power ballad “Dreaming All Night”, una faccenda decisamente per piano e voce, interpretata dalla Boschi, forse memore di qualche sua vicenda sentimentale, con tutta la convinzione e passione possibili.

Il quinto brano “What Can I Do?”, ovvero l’esordio del secondo demo, è un hard rock risoluto che prende le mosse da una complessa sequenza iniziale sintetizzata, la quale poi inopinatamente sparisce lasciando fare a chitarra basso e batteria ben marcati, sulle cui sincopi la voce solista fraseggia efficacemente, fino a piombare e distendersi nel sonoro ritornello. Si avvertono subito, rispetto ai primi quattro brani, la maggiore efficacia dei cori e il maggiore “fondo” degli strumenti (qui la tastiera è solo di contorno, limitandosi a “staccare” qui e là insieme alla chitarra).

Don’t You Leave Me” è la seconda power ballad e stavolta le tastiere fanno le cose in grande: un vero e proprio arrangiamento orchestrale, discreto ma raffinato, per un brano essenzialmente pianistico cucito addosso all’intensità della cantante, capace di riversare in poche frasi un pathos peculiare quanto egregio. Nel ritornello arrivano i doverosi chitarroni hard ad inserire la musica nel genere prediletto, come si faceva spesso e volentieri nelle ballate di quella stagione del rock. Quasi variopinto il solo di chitarra, che prende le mosse da una variazione di tonalità per inerpicarsi, con tanto di raddoppi armonizzati verso lidi, si potrebbe azzardare, cari a gente come Steve Vai, per non dire Brian May.

Believe in Yourself”, in un mondo giusto e migliore, sarebbe il “singolo” dell’album. Tutto è perfetto: prologo straniante, abbrivio deciso, refrain clamoroso, accessibilissimo, irresistibile, con le armonie corali ricche e perfette, Mary e i suoi pards al loro meglio, prodotti benissimo in studio in un episodio hard pop rock solare e gaio. L’avesse intercetto a suo tempo un produttore americano sveglio… (l’avrebbe “fregato” e fatto cantare, che so, a Pat Benatar, eh eh).

Con “Hard Times”, la canzone che intitolava il secondo demo, sembra all’inizio di risentire “What Can I Do”: c’e di nuovo un’assolvenza di tastiere stratificate, che però stavolta si risolve in un roccioso riff dal sapore rock blues, che sarebbe piaciuto a Jimmy Page. Ma vi sono sorprese: chitarra e ritmica si dissolvono presto in un avviluppante tappeto di sintetizzatori, sul quale la voce declama convinta le sue strofe. Arrivano degli stacchi di contrappunto dagli altri strumenti, ma il ritmo arriva solo nel ritornello. Canonico passaggio di chitarra solista, un ultimo ritornello e di nuovo il riffone blues a concludere come si era iniziato: gran pezzo, il meno AOR del lotto.

Non così per “Fly Away” che, nello stesso mondo giusto menzionato prima, sarebbe stato il secondo singolo: una frase efficace di tastiera, il solito portentoso “passaggio di sopra” del canto al momento del ritornello, variazione di tonalità su accordi in minore per le poche battute di proscenio della solista e via di nuovo coi ritornelli finali. Altro gioiellino, di puro AOR.

La conclusiva “I Need You” si appoggia ad un serrato ritmo stoppato di chitarra, che va a definire un rock’n’roll fuori dai canoni, con belle varianti, ad esempio l’assolo di slide guitar, ma un pò meno rifinito degli episodi precedenti e sicuramente meno fluido, a causa di passaggi ritmici un pizzico tortuosi.

C’erano idee e personalità negli Storm. Il loro album è una fedele rappresentazione del suo tempo per quanto riguarda i suoni, gli arrangiamenti, gli obiettivi. La masterizzazione dai vecchi nastri del tempo poteva essere condotta in modo più accurato, specie nelle code e negli inizi dei brani, ma va fatto un grande plauso a chi ha preso l’iniziativa della sua pubblicazione e a tutti quelli che vi hanno contribuito.

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