In buona parte a distanza, in parte in studio, massimo due per volta, distanziati di almeno 2 m e con mascherine. Fra mille difficoltà è nato “One to Zero”, il decimo album dei tedeschi Sylvan, che esce a ben 6 anni dal precedente lavoro.
La musica non cambia, in fondo la proposta dei Sylvan non ha subito grossi stravolgimenti nel tempo, solo piccoli cambiamenti, sostanzialmente le differenze risiedono nei primi due album, in cui il sound era vicino al neo-prog più tradizionale di primi Marillion e IQ, e nel periodo 2007-2009, dove si sono varcati lidi più pop. Tuttavia è possibile notare che negli ultimi lavori il sound, già di per sé delicato e raffinato, si è ulteriormente affievolito. “One to Zero” prosegue questo discorso, è abbastanza simile ai precedenti due album, ha quindi un sound estremamente delicato. Questo comporta dei difetti, che consistono sostanzialmente in una certa prolissità di fondo e in una scarsa varietà di soluzioni. Non che nella fase d’oro della band vi fosse un gran calderone di elementi, ma quel periodo 2002-2006 aveva quel qualcosa che teneva più alta l’attenzione, l’asticella era più alta: la ritmica variava quel tantino di più, vi erano piccoli sbalzi di intensità, un pizzico di genialità in più nelle parti di chitarra e tastiera, di tanto in tanto pure qualche parte più dura faceva capolino, come una cresta che si alzava in un mare tranquillo, e non erano nemmeno così rare, non erano escluse nemmeno incursioni nel metal; se poi prendiamo l’esempio di “Artificial Paradise”, con ogni probabilità il loro miglior album, allora ecco che parliamo addirittura di varietà completa, con ogni brano che si presenta anche profondamente diverso dall’altro sebbene rispondente ad un comune denominatore. “One to Zero” invece dà ancora una volta l’impressione di sentire sempre lo stesso riff; solita chitarrina ovattata e minimale, solite sofficissime parti di piano, pure qualche delicato arrangiamento d’archi, più un senso di rilassatezza generale che permane in gran parte dell’album. Sembra a tratti una sorta di musica classica contemporanea adattata al neo-prog. A uscirne penalizzato è chiaramente il vocalist Marco Glühmann, che è da sempre un vero punto di forza della band - nonché uno dei miei vocalist preferiti - ma qui si trova a dover cantare troppo spesso al minimo delle sue possibilità per ovvie scelte stilistiche. Stavolta però hanno avuto l’onestà intellettuale di contenere la durata complessiva, dopo i 90 minuti di “Sceneries” e i 76 di “Home” qui ci si limita a 65 minuti.
I brani in cui più si avverte un senso di prolissità non a caso sono proprio i due brani più lunghi, “Part of Me” e “Not a Goodbye”, non che appaiano interminabili ma la sensazione che sarebbero potuti durare meno si avverte; tutti gli altri invece scorrono benissimo, mancano sì di quel pizzico di dinamismo ma adempiono molto bene alla loro funzione, rappresentano bene quel senso di delicatezza che si prefiggono di mostrare. Non mancano comunque gli episodi più movimentati e le idee particolari, come ad esempio “On My Odyssey”, un tantino più vivace e con una sezione di violino frizzante e dai connotati quasi folk, roba piuttosto insolita per il gruppo. I brani che si distaccano totalmente dal resto dell’album sono però altri, ve ne sono sostanzialmente tre che non si sposano con la delicatezza generalizzata dell’album e danno quel tocco di vivacità che sicuramente non guasta: stiamo parlando dell’introduttiva “Bit by Bit”, che proporre senza problemi passaggi chitarra-tastiera che si inseriscono nel prog più puro, riportando i Sylvan alle proprie origini, all’approccio tipicamente neo-prog dei primi due album; c’è poi l’energica “Go Viral”, con suoni elettronici dall’atmosfera post-industriale, i pochissimi inserti metal dell’album e ancora passaggi chitarra-synth; il brano più spiazzante è però “Start of Your Life”, quella chitarrina graffiante ma non esagerata, quelle percussioni leggermente artificiose, quei saliscendi di tastiere che fanno molto Muse, tutto però a servizio di un’immediatezza abbastanza clamorosa, un hard-pop simpatico e frizzante, il classico brano controverso e modernista in grado di far storcere il naso a molti ma in cui si nasconde in realtà una piccola gemma.
Alla fine del discorso… ci si poteva aspettare di più ma nemmeno poi tanto, perché i Sylvan non sono quella band da cui aspettarsi il colpo di genio. La varietà non sarà molta ma i tedeschi hanno tirato fuori un disco assolutamente all’altezza del proprio stile. Rilassato, raffinato, elegante, in fin dei conti molto quadrato, scorre alle orecchie con pulizia, precisione e naturalezza incredibile, tutte le critiche che gli si possono rivolgere si sgretolano con forza quando ci si accorge della scorrevolezza e della cura dei particolari. Evitiamo di chiedere troppo.
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