Gli anni in tasca, a sottolineare le possibilità infinite che la vita offre ai bambini.

Truffaut nel 1976 dirige uno dei suoi innumerevoli film simbolo con un piglio da documentario, quasi amatoriale. Attori in gran parte non professionisti, tanti bambini e ragazzini tra cui la figlia Eva, per un racconto che è un inno all'infanzia da preservare e tutelare da una modernità troppo invasiva con ritmi innaturali che non rispetta l'esigenza del pensiero alla lentezza. Non siamo a Parigi, ci troviamo in una piccola cittadina della regione dell'Avernia in cui un maestro in attesa del primo figlio insegna ai suoi alunni il segreto di un'esigenza di vita che nasce e cresce ogni giorno nelle loro menti, che cerca di guadagnarsi spazio tra piccoli amori più o meno corrisposti, tiri al pallone e ritagli di vita famigliare. La Francia piccolo borghese si manifesta in tutta la sua complesità di emozioni colorate tra vecchi selciati in porfido, cortili, palazzoni senza ascensori e file di Reanult parcheggiate lungo una strada periferica. Truffaut omaggia la piccolà età e l'età di confine, l'adolescenza, con occhio semplice senza spendersi troppo in particolari ricerche tecniche come la caduta del piccolo Gregory dalla finestra che si risolve in un nulla "i bambini sono resistenti: sbattono dappertutto, contro la vita ma hanno un agelo custode. Hanno la pelle dura". Juliene è un bambino povero, maltrattato dalla famiglia, vive in una baracca ai margini della città. Il suo arrivo nella scuola porta il resto della classe a confrontarsi con una vita diversa dalla loro, con problemi differenti e con la consapevolezza che nulla è scontato e si può urlare dalla finestra "ho fame" per essere aiutati. Con il famoso discorso finale del maestro Richet Truffaut ci racconta dell'importanza del vivere un'infanzia vera, per riuscire ad essere da forti ed affrontare la vita con la giusta tenacia. Un piccolo grande film che riempie gli occhi di tutto, di amore e speranza in un futuro diverso quarantanni fa come oggi.

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