Mi sono espresso di recente su di un editoriale peraltro a quanto pare molto discusso (non lo sto menzionando per ritornare nuovamente sulla questione nello specifico, non è questa la sede) per quello che riguarda l'importanza per così dire 'taumaturgica' della parola, definendola un vero e proprio collante nelle diverse strutture sociali e relazionali a tutti i livelli a fronte della prepotente capacità del silenzio di essere invece qualche cosa di distruttivo.

Nella specie va detto anche che il silenzio, così come le reazioni aggressive (riprendendo nella specie quello che può essere ad esempio nel caso di Asia Argento un linciaggio mediatico di carattere sessista), costituisce esso stesso un mezzo di violenza, che possiamo praticare tanto sugli altri quanti su noi stessi medesimi, tanto che in alcuni casi secondo me possiamo persino parlare di quella che io definisco 'violenza condivisa'.

Casi di questo tipo possono essere molteplici: citerei come esempio più semplice quello di una relazione in cui uno dei due tradisce regolarmente l'altra persona che, consapevole di ciò che sta accadendo e soffrendo per questa situazione, sceglie il silenzio perché non sa che cosa fare oppure perché pensa che le cose si aggiustino col tempo, ecc. ecc.

Abbiamo in questo caso molto spesso una tipica esperienza di sofferenza condivisa: nessuna delle due persone del resto sta bene in questa relazione, una perché chiaramente è alla ricerca di 'soluzioni alternative', l'altra perché soffre di questa cosa, e alimentano vicendevolmente un malessere condiviso senza mai affrontare la situazione.

Questa è una situazione secondo me topica e nella quale intervengono tutta una serie di processi psicologici da entrambe le parti (rabbia, frustrazione, insicurezza, fragilità emotiva, vergogna, chiaramente sensi di colpa e paura di non essere corrisposti oppure perdonati...) che però sono una caratteristica di molte altre situazioni che possono essere applicate anche a casi mediatici come quelli riguardanti Asia Argento e Harvey Weinstein, dove le persone coinvolte nel caso sono non solo i diretti interessati ma una intera collettività; tanto a situazioni di carattere privato e personale come quella rappresentata.

Tragicamente credo che il migliore modello, quello più tipico e nel quale questo tipo di processo è ricorrente e applicato spesso in maniera metodica e poi condiviso e trasmesso ereditariamente di generazione in generazione, sia la famiglia.

È una constatazione tanto vera quanto tragica: nelle famiglie non si parla. Molto spesso non c'è dialogo tra genitori e figli e neppure tra marito e moglie. In molti casi vengono a mancare anche confronti tra fratelli e sorelle e pure all'interno di una famiglia che si potrebbe definire molto unita e apparentemente serena, per ragioni diverse alcune cose vengono taciute.

Mi preme evidenziare come questa situazione spesso prescinda dal livello culturale e sociale della famiglia in questione e come questo si verifichi in pratica a tutti i livelli e come allo stesso modo questo silenzio generi in maniera tanto tragica quanto inevitabile situazioni che possono essere anche particolarmente dolorose e che si possono trascinare avanti per anni rimanendo irrisolte, finché a un certo punto (quasi sempre) diventa troppo tardi e allora il rimpianto di non avere mai tentato di superare questa barriera invisibile può diventare ancora più grande e anche questo qualche cosa cui non si può porre più rimedio.

Di conseguenza sorge un nuovo tipo di problema che si unisce a quello precedente e a questo punto in molti casi va a fare parte della struttura dell'individuo che a sua volta, si presume, avrà un compagno oppure una compagna e magari dei figli portandosi dietro un passato di rimpianti e di partite irrisolte e in molti casi riproducendo automaticamente situazioni che possono essere simili, oppure le stesse, compiendo così una specie di rituale che si trasmette come una specie di malattia oppure difetto genetico di generazione in generazione.

In questo bel film del regista Michael Almereyda, tratto da un romanzo dello scrittore Jordan Harrison candidato al Premio Pulitzer e presentato in anteprima al Sundance Film Festival di quest'anno, la fantascienza ci sta tutta, ma possiamo dire che in un certo senso, questa non si può toccare.

Questo sta a significare primariamente che per quanto il film sia in tutto e per tutto un film di fantascienza, i suoi contenuti sono invero primariamente di carattere drammatico e sociologico invece che riguardanti la scienza e la 'fanta' in senso stretto.

Secondariamente va detto che l'elemento fantascientifico, che poi è quello che dà il titolo al film, i cosiddetti 'Prime', sono effettivamente qualche cosa di immateriale e che non può essere toccato con mano.

Che cos'è un Prime.

Un Prime è una proiezione olografica a tre dimensioni particolarmente realistica e collegata a una AI senziente e il cui patrimonio di conoscenze, al di là di quelle che vi sono imputate di base, si forma e si accresce a seconda delle informazioni che questa acquisisce dagli altri sulla realtà e le persone che lo circondano e su se stesso, fino ad acquisire una data e determinata personalità propria. Che in verità costituisce la replica di quella personalità che gli altri hanno voluto in qualche maniera ricostruire.

Sì. Perché il Prime in verità , per quanto la cosa possa apparire in qualche maniera grottesca (ma del resto parliamo di un'opera di fantascienza...), nasce e viene usato per uno scopo specifico, cioè quello di essere adoperato allo scopo di costituire la riproduzione olografica di una persona deceduta.

Il suo scopo è sostanzialmente quello di costituire un motivo di sollievo e una compagnia, una spinta anche sul piano emozionale alle persone anziane che rimangono sole dopo il decesso del loro compagno/a, oppure in ogni caso per chi non riesca a staccarsi da qualche persona che è deceduta e sceglie questo sistema per mantenere in vita in qualche modo quelle che sono le persone care.

'Marjorie Prime' racconta la storia di una famiglia attraverso tre generazioni e i rapporti e le interazioni che ciascuno di essi di volta in volta viene a instaurare con un Prime.

Il soggetto protagonista, secondo il titolo, sarebbe la anziana Marjorie (Lois Smith), una ex violinista che è oramai anziana e completamente 'sbadata' e cui il genero Jon (Tim Robbins) e la figlia Tess (Geena Davis) decidono di accompagnare al Prime del suo defunto marito Walter (Jon Hamme) per mantenerla in qualche maniera 'cosciente' e darle uno stimolo a andare avanti nella vita.

Ma i protagonisti veri della storia si può dire che sono tutti i rappresentanti della famiglia, un nucleo familiare che appare essere tanto unito e sereno, quanto allo stesso tempo in qualche modo oscurato da qualche cosa che evidentemente tutte le parti in causa si rifiutano di affrontare. Fino alla fine. Quando evidentemente spetterà proprio ai Prime condividere la verità in un gioco di specchi e dove i Prime desiderano acquisire quella 'umanità' che evidentemente non possiedono e che forse non potranno mai avere e dove invece gli umani vi hanno rinunciato o almeno hanno provato a fare di tutto per rinunciarvi per potere andare avanti.

Ma si può veramente chiamare 'vita', una esistenza dove ci lasciamo alle spalle la nostra umanità e i nostri sentimenti. Forse è questa la domanda principale che pone questo film i cui toni sono volutamente lenti, come volere lasciare spazio e tempo allo spettatore di guardare dentro gli occhi di tutti i personaggi in gioco, siano essi più o meno umani, più o meno artificiali, e dove lo scorrere del tempo costituisce qualche cosa che invece che sanare le ferite, probabilmente le tiene solo coperte, come quando spazzi la polvere sotto il tappeto.

'Marjorie Prime' è un film che difficilmente entusiasma, ma i cui contenuti sono sicuramente particolarmente profondi ed è un film sicuramente anomalo e unico nel suo genere per come è stato concepito e per come è stato girato: una lunga grande conversazione, spesso un vero faccia a faccia tra due soggetti (un essere umano e un Prime, ma le combinazioni possono essere anche diverse) e dove il puzzle si risolve solo alla fine rimettendo assieme tutti i pezzi.

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