Babe Ruth è stato un grande giocatore di baseball degli anni trenta, insuperato mito di questo sport negli Stati Uniti. Il grande disegnatore di copertine Roger Dean coglie al volo l'occasione illustrando questa opera prima del gruppo con un improbabile e spettacolare "Inning" in pieno vuoto siderale. A parte il "gancio" suggestivo costituito dalla copertina anche questo quintetto trae forza qualità e spinta, come tantissime altre formazioni, dalla classica accoppiata cantante/chitarrista, l'uno assoluto centro focale dell'attenzione sia su palco che su disco, l'altro eminenza grigia e direttore musicale del progetto.
La cosa insolita è che nei Babe Ruth il frontman è una frontwoman. Con le palle, però. Janita Haan sorprende perché quel corpo minuto affusolato e sottile e quel faccino gentile contornato da ciocche bionde e ondulate nascondono tonsille estruse nell'acciaio, atte a generare una voce di una potenza dinamitarda, manovrata con temperamento e grinta seppure ancora con una certa giovanile approssimazione (Jennie ha meno di vent'anni quando registra questo disco). Una specie di Janis Joplin però carina, proprio carina sul palco come si può verificare ancor oggi cercando in Internet le sue foto on stage, sinuosa e luccicante in tutina attillatissima e ombelico al vento mentre si piega all'indietro per caricare i suoi vocals penetranti e forti, del tutto adeguati a fronteggiare il marasma sonoro di un gruppo hard rock in piena azione.
Allan Shacklock invece è quel tipo di chitarrista con molta tecnica derivata da approfonditi studi classici, mandati a ramengo in favore del fuoco del rock ma sempre utili ad imprimere qualità e competenza alle sue composizioni ed esecuzioni. Un musicista esperto, compositore arrangiatore e produttore, per certo capogruppo incontrastato. A nome Babe Ruth sono stati incisi sei o sette lavori nel corso degli anni settanta, con continui avvicendamenti in seno al gruppo fino alla sparizione di ognuno dei cinque membri originari ma dopo un lungo oblio si sta tentando proprio di questi tempi il rilancio, con quattro quinti della formazione presente in questo disco e un nuovo album da poco sul mercato. "First Base" resta riconosciuto apice della loro carriera soprattutto perché vi è contenuta la canzone senz'altro più nota e brillante, intitolata "The Mexican" e tutta da descrivere: un incipit di chitarra classica spagnoleggiante viene subito ingoiato dalla progressiva assolvenza di un trascinante groove di basso e batteria, compatto ed invariato per tutta la durata del pezzo sì da renderlo assai ipnotico e ballabile, tanto da essere stato in passato puntualmente e più volte campionato dai soliti hip-hoppers in cerca di figure ritmiche efficaci per i loro pastiche prefabbricati da discoteca. Su questo drive irresistibile della ritmica, chitarra e piano elettrico si armonizzano su di un tema vagamente messicano, per poi far posto al timbro risoluto e aggressivo di Janita che sciorina la sua strofa e poi esplode di potenza nel ritornello, con un coro di inaudita, violenta sonorità. E' raro ascoltare tanto volume sonoro provenire da un'ugola femminea. La porzione strumentale centrale vede poi la chitarra, presto doppiata ancora dal piano elettrico, intonare l'immortale tema Morriconiano fischiettato nella colonna sonora di "Per qualche dollaro in più" (e qui regolarmente citato nei crediti compositivi) e svilupparlo a lungo, prima di tornare al tema principale di questa canzone che rappresenta un indubbio classico del rock, dalla personalità e atmosfera tutte sue.
In apertura del dischetto troviamo invece "Well's Fargo", un dinamico rockblues dominato da un secco riff zeppeliniano con basso e chitarra in unisono, sopra cui l'urlo di Jennie Haan va talvolta in fuori giri, giovanilmente impreciso e stridulo ma traboccante di temperamento. Notevole l'assolo di chitarra quasi in stile be-bop, fluido e pieno di uscite di scala, ma lo strumento solista in continua evidenza per tutto il brano è un sassofono, nelle mani di un musicista ospite. "The Runaway" è invece una struggente ballata, forse compromessa da una concessione all'autoindulgenza di Schaklock che vi concepisce una lunga coda orchestrale dall'effetto eccessivo e stucchevole. Prima di essere messa da parte da archi e legni la giovanissima cantante riesce a sfoderare i suoi toni più moderati e raccolti, addolcendo la voce ed avvicinandola così tantissimo alla collega Annie Haslam dei Renaissance, formazione folk/progressive a quel tempo parecchio in voga. In posizione n° 3 vi è a sorpresa la cover della strumentale "King Kong" di Frank Zappa. Il celebre tema del baffuto genio americano viene riarrangiato da Schaclock armonizzando nuovamente la sua Gibson col piano elettrico Wurlitzer del compagno Dave Punshon, per una versione devota e rispettosa, stavolta bella "asciutta" e meno orchestrale dell'originale. Il brano più lungo del disco è un'altra cover intitolata "Black Dog" (non quella degli Zeppelin, praticamente contemporanea a questo disco, bensì una delle tante ballate oscure del cantautore americano Jesse Winchester) su cui nuovamente Schaclock indugia con lunga coda strumentale (siamo nel 1972, le voglie progressive infarcivano le musiche di un po' di tutti i generi) stavolta però ben riuscita, molto più efficace e lirica di quella di "Runaway". La conclusiva "The Joker" è il momento più sfocato del lavoro, un riff abbastanza convenzionale portato per le lunghe con pochi spunti strumentalmente e vocalmente efficaci.
Babe Ruth è un discreto lavoro, reso ragguardevole dalle potenzialità vocali uniche di Jennie e dalla presenza del gioiellino "The Mexican" , brano da conoscere e possedere senz'altro in playlist.
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