La morte del padre e una relazione difficile possono spingere una ragazza tedesca a partire per un lungo viaggio, in giro per il mondo; possono stravolgerle l'esistenza e farla passare dai concerti nel proprio salotto (Wohnzimmer) ad un estenuante giro del mondo, insieme a Maximillian Hecker.
Ma viaggiando da una città all'altra, da un albergo all'altro, nel giro di pochi giorni, non c'è tempo per pensare; c'è lo spazio soltanto per tracciare dei veloci acquerelli, con i colori, gli odori, ma soprattutto i suoni dei posti che si visitano.
Ed è qui allora che accade il miracolo: si può suonare nei posti più diversi, da Tokyo ("Die Japanische Schranke") a Bombay, e sentirsi nello stesso tempo a casa; come se non ci si fosse mai mossi dal proprio appartamento. E proprio qui ci accorgiamo che quello che lega le canzoni di "The Grass Is Always Greener", quinto album della poco conosciuta Barbara Morgenstern, non è un genere - l'electro-pop, nè tantomeno la predominanza della lingua tedesca nei testi; sono invece gli arabeschi del destino a guidare le esili mani di Barbara sul suo amato pianoforte; quel destino in cui i momenti di felicità e di tristezza si alternano in una continuità di cui spesso ci sfugge il senso; e in cui tutto può cambiare da un momento all'altro ("Ein Paar Sekunden").
Partendo dal minimalismo elettronico dei To Rococo Rot di Robert Likkop ("Mainland"), Barbara individua il suo percorso originale, tra Joni Mitchell e i Telefon Tel Aviv ("Das Schöne Einheitsbild"), passando per i tappeti sonori cari a Milosh ("Quality Time") e le sonorità allegre dei Psapp ("Alles Was Lebt Bewegt Sich").
La fine dell'album è anche la fine del viaggio che, inevitabilmente, la riporta nella sua Berlino, l'unico posto dove si sente davvero libera; l'unico posto dove si sente davvero se stessa ("Initials B. M. "); anche se il sole esce raramente e, più spesso, piove.
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