Senza registrare riscontro di pubblico, senza tour promozionali da organizzare, né interviste da rilasciare, i Barclay James Harvest possono dedicarsi in santa pace a ciò che gli riesce meglio: fare musica. Si tratta di affinare il suono, superare le indecisioni e le ingenuità del disco d'esordio e dare al loro stile una maggiore consistenza. Obbiettivi raggiunti con il bellissimo "Once Again", del 1971, registrato agli Abbey Road Studios; un disco più maturo, completo e coinvolgente del precedente, che contiene alcuni dei grandi classici del gruppo e una manciata di brani di fortissimo impatto.

In questo lavoro l'importanza dell'orchestra sembra scendere di un gradino, ma forse si ha quest'impressione solo perché gli arrangiamenti sinfonici, curati ancora da Robert Godfrey, sono divenuti più coerenti, discreti ed efficaci, e danno vita ad una commistione difficilmente riscontrabile altrove con altrettanta efficacia. La crescita compositiva si nota già in apertura con "She Said", un grande classico dei BJH; incedere profondo, magniloquente sottofondo di mellotron, voce lirica e drumming epico, un bel pezzo dai toni sinfonici con l'ormai famigliare e acida chitarra di Lees a cesellare il ritornello con fraseggi indimenticabili. Avvolgente ed etereo, l'assolo di mellotron della parte centrale crea un clima di evocativa sospensione, per poi accompagnare verso un finale dove il rock psichedelico di Lees trionfa. Il secondo pezzo, "Happy Old World" è invece più disteso, un brano interessante dai toni poderosi e vagamente apocalittici, sorretto da organo e piano e con un cantato sofferto; molto bello il finale sfumato, dominato dal pianoforte quasi blueseggiante.

La successiva "Song For The Dying" è un vero gioiello dimenticato, con il pianoforte a introdurre una malinconica poesia di grande lirismo e pathos. Il brano da' il meglio di sé nello stupendo ritornello: eroico, eccelso, dominato dalla chitarra tiratissima di Lees che si esibisce in note distorte; senza orchestra né troppi fronzoli i BJH regalano una delle loro performance più misurate e allo stesso tempo epiche, con una delicata coda strumentale cullata dal basso e da uno struggente mellotron; da segnalare anche il toccante testo, dedicato ai caduti in guerra. L'ottima "Galadriel" è invece una ballata pastorale di tolkeniana ispirazione, i cui toni semplici e fatati sono consolidati da un discreto accompagnamento orchestrale. Splendidi l'arpeggio di chitarra e la voce per uno dei pezzi "morbidi" più riusciti dei BJH.

E' la volta di quello che forse è il brano più famoso del gruppo, ovvero la solida ed elegantissima "Mockingbird", epitome della loro ricerca artistica e della loro fusione di rock e sinfonia. Si inizia con chitarra e mellotron e con liriche che si stampano subito in mente per la loro evocativa semplicità, si continua con magniloquenti interventi orchestrali e cori, fusi con perfezione nella struttura centrale, si conclude con un crescendo ritmico e orchestrale difficile da dimenticare e con la favolosa chitarra stridente a sottolineare il drammatico finale. Come già avvenuto nel disco precedente, ad alleggerire i toni arriva il placido folk di "Vanessa Simmons", ballata riposante e piacevole. Ma il momento tenero finisce subito, perché "Ball And Chains" è un brano atipico, tiratissimo, sincopato e robusto; un blues elettrico cantato con voce filtrata e forzata costruito su riff di chitarra nervosi e incisivi e su di un potente ritmo dell'ottimo Mel Pritchard. C'è anche uno spettacolare assolo ci due chitarre sovraincise e la solita, eccezionale performance di Lees. Qualcosa di lontano dai soliti canoni BJH, che si dimostrano capaci di una duttilità e un'inventiva che col tempo verrà un po' messa da parte per ricercare soluzioni a più facile presa. Si conclude un po' in sordina con "Lady Loves", altra ballata, questa volta dai toni ancora più rilassati e sapori country ma con pochi momenti memorabili.

Con questo disco i BJH si dimostrano non solo compositori e interpreti virtuosi e raffinati, ma testimoniano anche l'assiduo lavoro di ricerca sonora che li caratterizza e che li rende una band di nicchia ma degna di assoluto rispetto e forse di riscoperta; superata la sbornia sinfonica del disco d'esordio, "Once Again" mostra una misura e una freschezza nuova e coinvolgente. Un bell'esempio di rock lirico e poetico, che se non contiene trionfi alla "Dark Now My Sky", presenta un equilibrio tra i brani di gran lunga più solido. Gustarsi di tanto in tanto un po' di raffinato e genuino romanticismo è un piacere che non ha prezzo.

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