La presente recensione costituisce l'ideale proseguimento di un discorso sulle forme dell'improvvisazione già avviato con il mio contributo a "Ganryu Island" della geniale coppia Zorn-Michihiro, e soprattutto è intesa come una risposta (naturalmente non polemica) alle contestazioni di due utenti che non si erano trovati d'accordo con le posizioni da me assunte in quella sede. Sinceramente, non avrei creduto che un tema già ampiamente discusso da certa bibliografia specialistica, come l'improvvisazione e i suoi caratteri, potesse suscitare tante obiezioni e recriminazioni, per giunta portate con simile veemenza ed animosità; ma la presenza di opinioni avverse è al contempo utile al sottoscritto a chiarire dubbi, che legittimamente qualcuno, avendo letto del vivace dibattito su "Ganryu Island", potrebbe avanzare.

Intendo quindi "rincarare la dose", se possibile, con un lavoro concettualmente molto simile a quello da me presentato nella precedente occasione: anzi, di fatto è possibile sostenere che, senza l'opera che mi accingo a presentare, quel curioso e bizzaro duetto sax-shamisen (seppure unico nel suo genere, come debitamente sottolineato) non avrebbe mai trovato cittadinanza. E' una delle opere più avanguardistiche e sconcertanti che il Novecento musicale abbia saputo proporre, una di quelle pietre miliari che impressionano, sconvolgono, "disturbano" anche, se possibile, fatte per sconcertare e non per piacere, qualora intendessimo per piacere la semplice soddisfazione auditiva in termini puramente "edonistici": e infatti, è opera che non si ascolta ma "si vive", rappresentazione di una fenomenologia capace di travalicare il mero evento sonoro e di collocarsi nell'eccelso ambito dell'"irripetibilità". E' il manifesto di una innovativa concezione di intendere lo strumento e, contestualmente, il rapporto stesso fra performer e strumento, pensando a come le potenzialità espressive del "medium" strumentale siano qui esplorate, ampliate, condotte all'estremo. E' la rivoluzione, la totale sovversione del tradizionale intendimento di "tempo" musicale: dalla linearità narrativa comprensiva, in quanto tale, di un'evoluzione, di una processualità, di un principio e di una fine, al tempo circolare, aperto, virtualmente infinito dell'improvvisazione, intesa  come "logica" performante di segmenti sonori di per sé illogici, casuali e irriproducibili, nella medesima forma, in diverso contesto. E' il trionfo dell'umoralità, del "senso" sull'impostazione preordinata e predefinita, di un linguaggio delle impressioni, dei sussurri, di frasi sgrammaticate lasciate a metà, di incompleti e bisbigliati "accenni" incaricati di sostituire un "compiuto", un "definito" che non c'è. E' la prova tangibile e inconfutabile di come l'improvvisazione, la "vera" improvvisazione (e non quella che alcuni amano definire tale per estensione semantica del termine) non abbia bisogno di canovacci: basta un contesto, bastano due fuoriclasse dello strumento, bastano "sensazioni" da tradurre in "materia sonora": un'immagine, uno spunto anche solo parziale (anzi, meglio se parziale), magari anche le potenzialità cacofoniche di uno strumento che al gioco si presti: un contrabbasso.

"Music From Two Basses" della coppia Holland-Phillips è dichiarazione programmatica fin dal titolo: ossia, la musica prodotta da un dialogo (a tratti, come a tratti si può e si deve piuttosto parlare di "litigio") fra contrabbassi. L'altro elemento indispensabile alla comprensione dell'opera è l'anno di pubblicazione: 1971, si legge sulle note di copertina, ma il sottoscritto, come già certa critica, non è d'accordo: questo è un album del 1969. Perché, direte voi? Sono forse impazzito? No, è il mio modo di dire che questo geniale esperimento è in realtà prodotto di una rivoluzione che in quell'annata fatidica ha interessato la musica "tutta": dopo quella rivoluzione, niente è stato più lo stesso: le distinzioni fra generi, la prassi esecutiva, le tecniche di registrazione e post-sincronizzazione. Per il sottoscritto (nato nel 1987) quello non è mai stato l'anno dello sbarco sulla luna; è stato l'anno di "Abbey Road", di Woodstock, e soprattutto l'anno di "In A Silent Way". E c'era Dave Holland, sbarcato oltreoceano qualche tempo prima (e prima del connazionale John McLaughlin), in quella mezz'ora e poco più di flusso continuo, di registrazione in presa diretta, di musica che già con un piede stava "oltre"; l'altro piede nella nuova dimensione lo si è posto qualche mese dopo, in estate, con le registrazioni di "Bitches Brew" e il "taglia e cuci" di Teo Macero a definir meglio quello che un affollato ensemble acustico-elettrico aveva già espresso. In pochi se ne accorgono, ma in quei mesi - e nei successivi - le sperimentazioni coltraniane dei Sessanta, il Davis elettrico, la monotonalità che impercettibilmente si fà atonalità, divengono la Bibbia di una nuova generazione che in essa si riconosce. Il 1969 di Miles (e, con Miles, di tutti i musicisti che, come Dave Holland, in quei giorni possono dire di "esserci stati") non finisce il 31 dicembre 1969, ma arriva a compimento nel 1972, con "A Tribute To Jack Johnson" (ma forse addirittura nel 1975, con gli album "gemelli "Agharta" e "Pangaea") e la realizzazione di quell' avvenieristico ideale di Jazz-Funk cui anche Hendrix, negli ultimi mesi, stava pensando, se solo il destino non avesse deciso diversamente...

Collaboratore del grande Dave a questo progetto è Barre Phillips, un californiano di San Francisco che aveva suonato (meglio dire: aveva inciso pezzi di storia) con Eric Dolphy e Lee Konitz, fra gli altri; l'empatia stabilitasi fra i due è eccezionale: anche quando, con risultati alienanti, più umori convivono nello stesso pezzo, sembra di avere la singolare sensazione di essere in presenza di un performer con due cervelli, tanto la percussività dell'uno sa fondersi con la melodica rilassatezza dell'altro. Ciò che si ascolta nella prima parte dell'album è quanto di più lontano dal "preordinato" si possa immaginare: non bastassero gli emblematici  titoli "Improvised Piece I" e "Improvised Piece II", le dissonanze e i disarticolati fraseggi proposti non lasciano dubbi. Non c'è, come si diceva, processualità alcuna, i passaggi che si ascoltano sono puramente "umorali" in quanto giustificati dal solo approccio "materico" (più o meno incisivo) allo strumento; il centro della performance è nello strumento, nelle corde tirate, strappate, accarezzate con l'archetto; nei singhiozzi, nei silenzi, nei momenti di feroce e selvaggia aggressività; nelle lamentose linee che si intersecano senza riferimento alcuno, amalgamandosi o contrastandosi sulla base del "feeling", dell'impulso del momento. 

Il resto dell'album è improvvisazione per la maggior parte, come nell'imitazione della pioggia di "Raindrops" e nell'isteria incontrollata, delirante di "Beans" e "Just A Whisper", ma è anche testimonianza di un approccio più ragionato, più cerebrale, più fondato su idee di base estemporaneamente rielaborate dai due: si ascolti la melodia astrale di "May Be I Can Sing It For You" e, soprattutto, la struttura semplicemente binaria di "Song For Clare": non a caso, nei titoli di ambo i pezzi risalta l'uso di due termini appartenenti alla stessa sfera di significato, "sing" e "song"; come si può constatare, non mancano suggerimenti...

Le cinque stelle sono scontate, direi quasi pleonastiche: ma il valore storico di questo monumento discografico è inquantificabile, trascende qualsiasi valutazione numerica. Un'esperienza da provare: irrinunciabile.

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