Il Bayfest è un festival punkrock che quest’anno spegne le tre candeline e che si svolge ad Igea Marina poco a nord di Rimini all’interno dello scenario del Parco Pavese. Questa terza rassegna presenta una line-up veramente pesante (con Bad Religion, Pennywise, Rise Against, Face To Face, Good Riddance ed Ignite come nomi di punta) e ad aprire le giornate diverse band nostrane (tra le altre Shandon, Vanilla Sky, Cattive Abitudini, Andead) da far invidia a molti migliorando e di non poco quella delle passate edizioni.
E’ proprio questo il motivo che mi ha spinto a fare tanti chilometri pur di essere parte di questa grande festa di musica, sudore ed amicizia. Perché diciamocelo sarebbe un po’ masochista avendo il mare a due passi imbarcarsi in tale avventura in riviera a Ferragosto solo per fare il bagno in un mare che gli stessi abitanti del posto considerano mediocre e per di più pieno di stabilimenti privati.

Di questa tre giorni racconterò le giornate del 14-15 Agosto, avendo saltato la giornata inaugurale.

14 Agosto.

Arrivo al parco intorno alle 18.40 a metà esibizione degli Andead, dediti ad un punk-rock melodico, mai ascoltati prima e questa porzione di concerto mi sembra troppo poco per esprimere un vero e proprio giudizio.
Veloce cambio di palco, per fortuna sarà una costante, e salgono sul palco gli Shandon riunitisi del 2015 che fanno ballare e divertire il pubblico con il loro ska-punk, risuonando vecchi cavalli di battaglia.

Usciti di scena gli Shandon le cose cominciano a farsi veramente serie con un gran bel tris (Bad Religion – Pennywise – Good Riddance) che conferma come la serata-clou da non perdere tra le tre sia proprio questa.
I Good Riddance non avranno l’epicità della band di Greg Graffin, non avranno Zoli ugola d’oro Teglas, ma Russ Runkin ci mette un’energia tremenda che scatena un pogo violento e anche grazie al fatto di suonare molti vecchi pezzi alcuni tratti da “Operation Phoenix” (il loro disco più hardcore) tra cui “Heresy, Hypocrisy and Revenge” e “Shadows of Defeat” fanno scorrere adrenalina a fiumi e portano i bpm a livelli assoluti.
Suonano tre pezzi dell’ultimo e riuscito “Peace on Our Time” ignorando invece completamente “My Republic” penultimo disco, non suonando stavolta nemmeno l’aspettata “Darkest Days” e secondo me a torto, ma fanno tra le altre “Letters Home” quindi sono comunque felice, senza comunque far mancare altri classici tra cui “Last Believer”, “Credit to his Gender” e “Weight of the World”.
Il set si conclude con uno scatenato Chuck, il chitarrista, che lancia i suoi effetti personali in mezzo al pubblico, prima dei consueti saluti finali.
E’ una band nata per suonare dal vivo senza filtri e senza fronzoli ed inutili orpelli. Decisamente promossi.

Breve attesa e subito semaforo verde per il gruppo proveniente da Hermosa Beach che apre con “Wouldn’t it Be Nice” proseguendo con una manciata di pezzi che pescano quasi completamente dai dischi degli anni Novanta in particolar modo il sottoscritto ha apprezzato l’esecuzione di “Peaceful Day” opener di “About a Time” e dell’omonima “Pennywise” pezzo risalente al loro primo disco.
Le distorsioni che fuoriescono dalla macchina infernale di Fletcher sono veramente possenti, riconfermando un gusto quasi thrash, che sovrastano la voce di Jim Lindberg che risulta mai troppo alta.
Quello che invece un po’ dispiace riguardo da una band come i Pennywise è la poca dinamicità della setlist negli ultimi anni con i pezzi sempre gli stessi, su cui comunque mi curo relativamente essendo la mia prima volta, ma in ogni caso trovo assurdo da una band con all’attivo dieci album da studio tra gli altri, la costante riproposizione di tre/quattro cover a concerto tralasciando poi grandi pezzi del loro repertorio quali “Date With Destiny” o “Time Marches On”.
Promossi, sperando osino di più la prossima volta.

I Bad Religion erano il motivo principale che mi ha portato a farmi 10 ore di traversata tra macchina, aereo, treno e bus ed a dormire in uno sgabuzzino spacciato per stanza che ha rischiato seriamente di farmi morire di claustrofobia ed a quasi non chiudere occhio per due giorni.
Sono senza dubbio la mia band melodic hardcore preferita e non hanno deluso le aspettative, risultando essere in forma ed ispirati.
Hanno il vantaggio di poter attingere da un vastissimo repertorio fatto di innumerevoli dischi dal 1982 in poi e a differenza dei Pennywise lo fanno intelligentemente, dando spazio un po’ a tutti i loro dischi, senza ovviamente dimenticare i grandi classici.
L’inizio vede risuonare le note della celebre “American Jesus” uno dei pezzi più conosciuti del gruppo e si va avanti con qualche intermezzo del professore a fare da collant tra una canzone e l’altra. Il prof indica, canta e da buon maestro ammonisce con una battuta i partecipanti a non pogare visti i livelli di sabbia alzatasi per aria che devono non piacergli troppo. Ma diciamocelo: cosa c’è più punk di un concerto + pogo sulla sabbia? E pazienza se il sottoscritto ignaro del posto, non si sia portato nemmeno un paio di scarpe da tennis di ricambio!
I grandi classici ci sono tutti da “You”, “I Want to Conquer the World” e “No Control” pescate dritte dal miglior disco della band passando per “Modern Man”, “Anesthesia” e “Against The Grain” dall’altrettanto fondamentale disco del 1990, senza dimenticare la tenera “Along The Way”, la favolosa “Recipe for Hate” e “What Do You Want” che sarà però l’unico pezzo suonato da “Suffer”. Ottime scelte nulla da dire.
Tra le canzoni più recenti si segnalano “Sorrow” che complice anche il suo ritornello contagioso scatena un fantastico sing-along, “Los Angeles is Burning” con Greg che la introduce facendo un paragone climatico tra la loro L.A. e la riviera e “New Dark Ages”.
La chiusura non poteva che spettare a “Fuck Armaggedon… This is Hell” introdotta da Greg con un po’ di malinconia probabilmente per tutti gli anni passati.
Il tempo continua a scorrere ma le lezioni del prof. continuano ad essere ispirate sia su disco (avrebbero potuto fare qualche pezzo in più dagli ultimi due e togliere “Atomic Garden” per dire) che dal vivo.
Leone d’oro alla carriera.

15 Agosto

Complice il traffico ed un fastidioso mal di testa perdo l’esibizione delle Cattive Abitudini ed arrivo a vedere un paio di pezzi dei Vanilla Sky, che suonano qualche pezzo prima di salutare tutti tra cui “Break it out” e la cover di “Just Dance”. Staremo a vedere se la reunion porterà ad un nuovo disco.

Puntualissimi alle 19.20 salgono sul palco gli Ignite, Zoli dimostra tutto il suo talento e la band propone una setlist coi fiocchi dando quasi completamente spazio per la mia gioia all’ottimo “Our Darkest Days” eseguendo tra le altre “Let it Burn”, “Fear is Our Tradition”, la ballata “Better Days”, “Poverty For All” e relegando “Bleeding” a chiusura di lusso. L’esibizione vede un momento di pausa per l’ingresso di alcuni volontari di Seashepard che promuovono l’associazione ambientalista, che riceve il supporto convinto anche del cantante.
Orange County splende, con l’auspicio la prossima di vederli suonare un numero di pezzi maggiore, perché diciamocelo gli Ignite non meritano di suonare mezz’ora.

Subito dopo arrivano gli Anti-Flag da Pittsbourg. Devo ammettere di conoscere una manciata di loro pezzi e di non averli mai approfonditi a dovere non essendo quindi un grande fan della band. Così ne approfitto dell’occasione per andare a prendermi un panino e una birra e tirare un po’ il fiato vista anche la stanchezza accumulata in questi giorni.
Riguardo l’esibizione a cui assisto da una panchina, è stata probabilmente tra le più gradite dal pubblico del festival che ha apprezzato la passione. Il concerto si chiude con il bassista che suona tra il pubblico, una festa nella festa.
S.v.

Ormai è scesa la notte su Igea Marina, l’afflusso di pubblico è notevole ed è arrivato il momento di dare il benvenuto ai Face to Face, band hardcore melodico con una certa esperienza se si pensa che calcano le scene da più di 25 anni.
Devo ammettere di non averli mai ascoltati fino a 15 giorni prima del concerto, eppure non ci ho messo molto per apprezzarli. A conti fatti risultano essere la sorpresa più piacevole della serata non risparmiandosi nell’ora di tempo loro concessa con le loro invettive condite di ritmiche in quattro quarti velocissime, dando spazio anche a pezzi tratti dall’ultimo disco del 2016 come “Bent but not Broken” e “Double Crossed”. I momenti clou per il sottoscritto sono l’esecuzione di “I Want” e la chiusura melodica con “Disconnected” entrambe tratte dal loro fortunato esordio “Don’t Turn Away” senza che all’appello manchino anche altri grandi pezzi dei primi album come “You Lied” e “It’s Not Over”. I Rise Against dovrebbero solo prendere esempio dai Face to Face su cosa vuol dire suonare melodico senza perdere di credibilità ecco.

Se gli headliner della serata del 14 erano stati i Bad Religion per evidenti meriti storici, per la sera di Ferragosto visti i nomi in gioco ed il seguito la scelta non poteva che ricadere che sulla band di Chicago. Che le cose non sarebbero state rose e fiori lo si era capito fin dal principio: l’inizio del concerto previsto per le 23 slitta di circa 15 minuti dall’ora prevista, nonostante la puntualità svizzera nel rispetto di tutti gli orari delle altre esibizioni.
Ora è bene fare una premessa riguardo i Rise Against. Fino a circa 6 anni fa erano forse la mia band preferita ed ho adorato i primi 4 dischi a suo tempo, ma le successive prove da studio sono state deludenti e vedendo anche le setlist recenti dei concerti ero preparato e disilluso sul fatto che non avrei ascoltato proprio quei pezzi a cui ero legato.
Ritardo irritante a parte, la scaletta come prevedibile disconosce quasi completamente i primi 4 dischi fatta eccezione di “Give It All”, “Like the Angel” e l’acustica “Swing Life Away” concentrandosi sugli ultimi dischi da cui spesso per altre pescano le canzoni più mediocri, che hanno portato la metamorfosi dei Rise Against dall’essere una rispettabile nuova leva della scena hardcore melodica al trasformarsi in un ensemble qualunquista e yuppie da Leopolda liberticida.
Una prova per altro a detta di tutti sottotono e svogliata di Tim McIlrath e compagni accompagnata anche da prescindibili intermezzi filmati in stile cartoonesco che hanno sottratto ulteriore tempo all’esibizione. E poi chiudono con “Savior” che riesce persino a far sembrare “Wolves” e “The Violence” pezzi estratti dall’ultimo disco capisaldi indiscussi della loro discografia e credo di aver detto tutto.
Da parte mia non vedranno più un centesimo per un loro live, poco ma sicuro visto l’andazzo preso.

In conclusione posso dire che l’esperienza del Bayfest è stata veramente positiva anche e soprattutto grazie alle band che vi hanno suonato, alla location ampia ed a due passi dal mare, al pubblico e all’organizzazione. Le uniche pecche sicuramente i prezzi (veramente poco punk di cibi e bevande con una bottiglietta d’acqua piccola a 2 euro) e la poca varietà di soluzioni gastronomiche, mentre per quanto possa essere divertente e punk pogare sulla sabbia, andrà in futuro studiata qualche soluzione per rendere l’aria più respirabile.

Posso quindi tornare a casa contento e soddisfatto per questa esperienza, che conto di ripetere, sognando magari che un giorno anche la mia terra che seppur vanta festival di spessore come l’Ypsigirock, possa ospitare un evento del genere.
Una cosa è certa il punk con la sua cultura e la sua musica non è affatto morto, esiste e vive in tutte quelle persone che in questi tre giorni hanno popolato il parco con grande spirito di fratellanza cantando, saltando ed urlando in quello che è stato sicuramente un evento da ricordare a lungo.

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