Questa non è una recensione, una recensione su quest'argomento va al di là delle mie capacità: è una segnalazione, nient'altro. Scritta sull'onda dell'emotività, tra l'altro. Quindi non così mia quanto altre, ma spero che raggiunga l'effetto desiderato e che almeno uno sia convinto a guardare questo “A torinói ló”. Ma che cos'è “A torinói ló”? “A torinói ló” è un'elegia lunghissima, un cimitero dove giace un solo corpo: il corpo della speranza. È un sogno fatto di piano-sequenza lunghissimi, di profondità di campo e ombre annesse. “A torinói ló” è tutto questo, sì, ma non basta: perché i piano-sequenza non riproducono il tempo nel suo fluire ma ne colgono la ripetizione, l'insignificanza dell'eterno trascorrere, e la profondità di campo non dà l'illusione di libertà ma solamente di solitudine così come le ombre annesse ai volti anziché plasticizzare i personaggi li lasciano inchiodati a loro stessi o alla loro esistenza, quindi fermati e guarda altrove mentre la vita scorre.
Torino, 1889. Nietzsche esce di casa e, vedendo, un uomo bistrattare il proprio cavallo, gli si avvicina e getta le braccia attorno al cavallo, in segno di compassione o empatia: verrà riportato a casa da un amico di lì a poco. Ma cosa ne è, di quel cavallo? Il film è questo, racconta i sei giorni successivi della vita del cocchiere e della figlia. "Contadini dello spirito", vivono in una stamberga nella pianura ungherese e tutto, lì intorno, non ha niente a che fare con la vita (e nemmeno con la morte): tutto lì intorno fluisce e ritorna, ritorna e fluisce, e sembra proprio che il tempo trascorra solamente per tornare al punto di partenza come se non si fosse mai mosso; del resto, già per gli antichi greci il tempo aveva un movimento circolare, il che non significa che tutto sia come prima ma solamente che noi uomini facciamo davvero di tutto per allontanare la morte, anche forzare il tempo alla ripetizione, a se stesso, all'eterno ritorno.
È un film per pochi, certo. Due ore e mezzo in bianco e nero, pochi dialoghi, giusto qualche parola qua e là. E la macchina da presa si sofferma sovente sulle attese, sugli oggetti – anche per qualche minuto. La figlia aspetta che le patate cuociano e l'inquadratura successiva la ritrae immobile seduta di fronte la finestra per lunghi istanti. Poi arrivano gli zingari, la malattia del cavallo, un vicino che chiede della vodka e dice.
Dice: «E d'un tratto si resero conto che non ci sono né Dio né dei: capirono che non esiste né il bene né il male. Poi videro (e compresero) che, se le cose stavano così, allora nemmeno loro stessi esistevano».  
Nessuna trama, insomma. Solo l'effimeratezza della vita, colta nel suo continuo replicarsi, sempre identica a se stessa e troppo, troppo simile alla morte. È vita, questa? La povertà, il freddo, l'assenza di amore... sii grato per quello che possiedi e guarda da un'altra parte mentre la vita scorre, perché non ci sono né Dio né dei, né bene né male – sono solo invenzioni umane atte a dare un senso al quotidiano fingendo che abbia a che fare con l'eterno, ma il quotidiano è oltre il bene e il male e la vita – inutile ignorarlo – si ferma qui.
(Tornato a casa, Nietzsche verrà sdraiato sul letto e sarà assistito dagli amici prima e dalla sorella poi fino alla propria morte, ma è in quel letto di Torino che, nel suo ultimo bagliore di sanità, apre la bocca e dice: «Madre, sono pazzo».)

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