Continua la commovente impresa di una neonata casa di distribuzione italiana (la Eye Division) d'importare sul mercato nostrano la filmografia di Béla Tarr, e continua tornando indietro, al principio, a Családi tuzfészek, primo lungometraggio dell'ungherese in cui già mostra un occhio vigile nei confronti dell'individuo, della sua fragile poliedricità in un film che segue le vicende di una coppia nell'Ungheria degli anni '70 costretta a vivere coi genitori di lui in attesa dell'assegnazione di un appartamento.

Ma torniamo indietro. 

Un operaio figlio di operai gira un cortometraggio che gli costerà l'arresto da parte della polizia politica ungherese, nonché il divieto di frequentare gli studi filosofici all'università: è Béla Tarr a sedici anni, sei anni prima di esordire con questo Családi tuzfészek, un film dov'è già in germe tutta la sua poetica, la filosofia che vena un'opera grandiosa e che troverà nell'ultimo testamento spirituale, A torinói ló, la propria stella danzante. E bisogna tenerlo presente, perché Tarr parte da qui, anzi da lì, dalla fabbrica e dalla rabbia nei confronti del coercitismo politico e della sonnolenza delle masse, abituate a una libertà opaca; e parte da qui solamente poi, da una cellula familiare in frantumi, per approdare infine a predestinare lo sfacelo dell'umanità in quel capolavoro finale che segna il suo addio al mondo del cinema. Ma qui c'è un Tarr nuovo, un adolescente arrabbiato che guarda con disincanto a una famiglia che si autodistrugge senza rendersene conto, senza nemmeno - a posteriori - capirne il motivo. 

Dimenticate l'amara consapevolezza che tutto è perduto di chi attende il circo in Werckmeister harmóniák.

Dimenticate quegli individui che si rintanano in se stessi e si fanno mondo per sfuggire alla miseria del mondo in Kárhozat.

Dimenticate il cinema in quanto tale, e il pessimismo nietzschiano che lo vena. 

Tarr fa - come dire - il percorso inverso di Guédiguian, ed è inutile spendere parole su quanto sia importante cogliere le sfumature della partenza per intendere l'istante dell'arrivo che realizza tutto quanto l'ha preceduto; guarda alla famiglia, Tarr, alla cellula che costituisce la società - una società, quella descritta nelle sue pellicole, che ha davvero poco di sociale, di umano. E già qualcosa si spezza all'interno di questa monade familiare, ma è qualcosa di minuscolo, di quotidiano, che non passa nemmeno all'occhio, ma che è, invero, la vera catastrofe che condurrà la natura allo sforzo ultimo di liberarsi della razza umana, poiché è nella famiglia che nascono e vengono o fomentati o osteggiati i totalitarismi. Non manca molto ai lunghissimi piano-sequenza della pustza ungherese che faranno da specchio universalizzante il dolore che ogni essere umano si porta dentro come un feto da abortire, ma non ci siamo ancora: qui prevalgono i primi piani di una telecamera a mano che tenta di sfociare dalle quattro pareti dello schermo ma che ineluttabilmente trova un oggetto, un qualcosa d'inanimato che ne impedisce il fluire eterno e costringe così la telecamera a tornare sui volti della famiglia per carpire il particolare e farne, di questo particolare, il grimaldello che spiani la strada a un'eristica dei patimenti della persona, che non è mai sola pur essendo sola, anzi è proprio la presenza dell'Altro a farle percepire la propria solitudine... e così la telecamera, tra gli abbracci e gli scontri dei familiari, è in surplus, si trova fuori posto nella dialettica del nido familiare. 

Perché la famiglia si chiude & si disperde, e noi siamo già estranei di quanto credevamo familiare.

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