"Non riesco a sentire la freddezza, ma solo la loro falsità..."

Di tutta la filmografia del maestro ungherese Béla Tarr (non molto ampia, a dire il vero), questo Oszi almanach / Almanacco d'autunno (1985) costituisce di sicuro l'episodio più singolare per una serie di ragioni: anzitutto possiamo considerarlo un ottimo lavoro di transizione in quanto, dopo un primo periodo visivamente rozzo e all'insegna dei drammi familiari, getta le basi per lo stile raffinato, ponderoso e allegorico (consolidato col bellissimo Perdizione, del 1988) grazie al quale Tarr ha creato i suoi capolavori assoluti negli anni a venire, diventando uno dei migliori cineasti viventi e acquistando popolarità tra gli appassionati di cinema d'autore. In secondo luogo, si tratta dell'ultimo dei suoi rari film a colori, nonché a mio modesto parere il migliore in assoluto per quel che concerne la fotografia - e non è affatto poca cosa, se consideriamo le meraviglie partorite nei decenni successivi. Infine, è sorprendente notare come sia l'unico suo film la cui (non-)trama si regge sul solo dialogo, attraverso il quale si svelano le dinamiche tra i personaggi così come le loro più intime riflessioni.

L'intera vicenda si svolge come sospesa nel tempo, in un grande e cupo appartamento dove vivono e interagiscono cinque protagonisti: la ricca e affascinante proprietaria (Hédi), il figlio avido e violento (János), l'infermiera (Anna), il suo fidanzato (Miklós), e poco dopo si aggiungerà pure un baffuto maestro elementare (Tibor) con problemi di alcool e denaro. Per tutta la durata del film Tarr metterà ognuno di essi a tu per tu con gli altri (madre e figlio, Anna e Miklós, poi madre e Anna, János e Tibor, e così via), costruendo, più che una trama vera e propria, una fitta rete di situazioni, un girotondo di azioni-reazioni-riflessioni destinato a non avere una conclusione definitiva - come la citazione iniziale di Pushkin e il finale amaro e scanzonato lasceranno intendere.

Ancora senza il preziosissimo e costante contributo dello scrittore László Krasznahorkai, il quale giungerà poi con Perdizione, Tarr stesso si occupa di una sceneggiatura sobria e ripetitiva, dalla struttura non molto distante (e qui verrò linciato di brutto) da quella di una soap opera (!), ma non per questo immediata: il flusso di pensieri dei personaggi si fa spesso ondivago, inafferrabile, suggestivo, e non sempre le loro intenzioni sono chiare; del resto si tratta di un dramma psicologico che vuole mettere a nudo le contraddizioni, le debolezze, il degrado e la volubilità dell'essere umano, anticipando i toni apocalittici e devastanti dei capolavori futuri pur rimanendo su un piano squisitamente intimo.

L'ambiente fisico, la fotografia e le tecniche di ripresa riflettono ed esaltano i contenuti: l'appartamento assume un ruolo di confessionale, in ogni stanza ciascuno si rivela all'altro e a se stesso, piange, addirittura ride (fa un certo effetto sentire delle risate in un film di Béla Tarr), fuma, beve, spettegola, a volte si scambiano pareri e a volte il dialogo diviene un vero e proprio monologo, e non mancano i momenti di violenza fisica. A dispetto del tono pacato e sommesso della narrazione, l'ambiente è spesso claustrofobico, complice la totale assenza di riprese esterne e di qualsiasi luce naturale, mentre l'uso dei colori è allucinante. Con Almanacco d'autunno Béla Tarr raggiunge finalmente una perfetta, assoluta padronanza dei propri mezzi: la sua cinepresa scandaglia i locali e i loro inquilini da ogni angolatura possibile, dapprima sbirciando in piani-sequenza circospetti, poi girando in tondo, poi soffermandosi a lungo sui volti, elevandosi oppure abbassandosi a rasoterra, il tutto con una precisione degna di un chirurgo, indice di un gusto estetico fuori dal comune. Merita menzione la scena di lotta tra Miklós e Tibor, ripresa da sotto una lastra di vetro sulla quale recitano gli attori; uno studio dell'inquadratura a 360°, nel vero senso della parola.

Come già detto, la fotografia (che ha richiesto ben tre direttori!) è incredibile e tra le migliori che abbia mai visto; se all'inizio pensavo che il primato spettasse ad Apocalypse Now (rivisto di recente e non ha perso un milligrammo della sua potenza, visiva e non), dopo questo Almanacco d'autunno mi toccherà smentirmi: quello che potrebbe essere un film essenzialmente scarno viene trasformato in un assurdo gioco di colori ai limiti dell'espressionismo, peraltro senza sacrificare neanche un minimo di nitidezza dell'immagine soprattutto nelle scene più scure o coi colori più impegnativi da gestire. Così, nella stessa sequenza narrativa vedremo un personaggio illuminato di verde pallido e l'altro di rosso, e gli stacchi sembreranno dividere due luoghi all'apparenza distanti; oppure lo stesso protagonista verrà percorso da luci blu e rosse; o ancora scene immerse nel blu, tanto da richiamare i dipinti del primo Picasso! Una caratteristica che, a prescindere dal piacere estetico, non fa che esaltare l'ambivalenza delle relazioni costruite e poi distrutte (mai del tutto) nel corso del film. Incredibile notare poi come in alcuni momenti le fonti di luce siano così incerte da far sembrare i personaggi illuminati di luce propria, come se fosse un'aura, quasi a voler sottolineare che, nonostante le paure, i dissidi e le disillusioni, resta pur sempre una traccia di calore umano a cui aggrapparsi.

Insomma, regia magistrale, grandissimo lavoro di rifinitura nonostante la semplicità della mise-en-scène, trascurabili invece le musiche appena abbozzate - Mihály Víg sarà molto più incisivo in futuro. Non mi spingo oltre l'ottimo voto perché giustamente il meglio doveva ancora venire e perché, aldilà della ricchezza di forma e sostanza, in 115 minuti può comunque capitare di perdersi un po' via tra la ripetitività delle situazioni e la pesantezza di certi dialoghi. Ciò non toglie che questa sia la classica perla nascosta che gli estimatori del regista dovrebbero riscoprire e quantomeno apprezzare per la sua unicità.

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