Secondo me Ben Affleck (in combutta con George Clooney, produttore) manco lui, a film finito, ci ha potuto credere fino in fondo. Cioè, per carità, sei Ben Affleck, hai già un Oscar a casa (in "co-abitazione" con Matt Damon per la sceneggiatura di "Will Hunting", 1997) e sei comunque un attore importante, ma non sei un regista quotato e la metà dei film che hai fatto potrebbero essere dimenticati per sempre. Eppure nel 2012 te ne esci con un film, "Argo", che è praticamente perfetto in ogni singola sequenza e ti porti a casa 3 Oscar, tra cui quello come miglior film, annunciato, nientemeno, che dall'allora First Lady Michelle Obama (e Jack Nicholson in conduzione). Bingo, ma come hai fatto, Ben?
Alla base c'è un articolo giornalistico di Joshuah Bearman pubblicato su Wired e il romanzo dell'ex agente della Cia Tony Mendez (nel film interpretato da Affleck stesso), "The Master of Disguise". Si tratta di un'operazione dei servizi segreti risalente al 1979 ma svelata all'opinione pubblica soltanto trent'anni dopo. Ciò che viene svelato al pubblico è giornalisticamente gustosissimo e, al contempo, corposo, tanto che lo sceneggiatore Chris Terrio (anch'egli premiato con l'Oscar, giustamente) ne fa un lavoro di esfoliazione tanto certosino quanto puntiglioso. E sarebbe incredibile la trama, se non fosse (drammaticamente) vera: nell'Iran di fine anni '70 la folla assalta l'ambasciata americana a Teheran e prende in ostaggio 52 funzionari. Sei riescono a squagliarsela e si nascondono nella dimora di Ken Taylor, ambasciatore canadese. Dato che rischierebbero la pelle qualora venissero scoperti, il Dipartimento di Stato tenta di salvarli in ogni modo, ma l'unica soluzione possibile, seppur ai limiti dell'incredibile, sembra quella dell'agente Cia Mendez: si metta in piedi una produzione cinematografica fittizia decisa a girare un fantasy dal titolo Argo, ed ecco che, d'improvviso, i sei prigionieri diventano membri di una troupe hollywoodiana totalmente inesistente. Imbrogliare gli Studios americani e la stampa è un giochetto, meno i funzionari iraniani meno boccaloni. Viene da sospettare che Tony Mendez abbia visto molte volte "La stangata", visto che l'idea di base appare quella (là una finta agenzia ippica, qui un finto set cinematografaro).
Ciò che convince è la strada narrativa che intraprende Affleck, a metà strada tra la commedia e il film di spionaggio. Tutta la parte in cui i sei devono ingannare Hollywood, con la compiacenza di un vecchio maneggione interpretato alla grandissima dal solito immenso (in tutti i sensi) John Goodman, è commedia pura, inganno, trucchi da consumati mestieranti. La parte di spionaggio, e dunque la ricostruzione storica, è incredibilmente calzante: l'Iran del 1979 è scenografato in modo impeccabile, a sorprendere maggiormente però sono gli innumerevoli momenti di tensione che Affleck infila, costantemente, nel film, e a questo proposito non si può non citare tutta la fuga finale che occupa venti minuti totali e che riesce a tenere col fiato sospeso anche lo spettatore più distratto (gran lavoro di montaggio di William Goldenberg, Oscar meritato). Thriller e ironia si fondono in un unicum che ha precedenti lontanissimi (il cinema d'impegno degli anni '70) e che vede Affleck togliersi qualche sassolino dalla scarpa, vista la rappresentazione ben poca edulcorata di una Hollywood popolata da ricconi ignoranti e produttori idioti.
Una messa in scena classica, molto classica per essere nel 2012, e una direzione degli attori che lascia a bocca aperta. Poi certo, i nomi in campo sono di inataccabile prestigio: Alan Arkin; John Goodman; Christopher Denham. Sembra quasi che Affleck abbia voluto omaggiare un cinema a lui caro, in cui i generi si miscelavano fino a formare un magma solidissimo laddove ogni cosa (dalla sceneggiatura alla regia, dalla fotografia alla colonna sonora) si inseriva con facilità al proprio posto. E nemmeno la durata, 2 ore secche, ne risente davvero.
Cito la frase di un famoso critico, che ben, a mio avviso, rende l'idea di ciò che Affleck ha voluto raccontare narrando una Hollywood tanto becera:
"[...] e nel suo rivendicare la componente umana di un lavoro che il cinema tendeva a rendere superomistico".
Concordo.
Carico i commenti... con calma