"And I may be floating through memory. We may be the broken wings on a butterfly, But didn't we dream big, once or twice? And that's just fine."
Non sono molto bravo a descrivermi, con ogni probabilità nell’arco di cinque minuti potreste sentire mille pensieri, l’uno diametralmente opposto all’altro. Nel caos, però, ho assoluta certezza di una piccola tessera del mosaico. Uno zenit con cui ho imparato a convivere con gli anni e che mi tiene compagnia: mi innamoro dei particolari, mi ci perdo e difficilmente ritrovo il filo d’Arianna. Non che m’interessi molto recuperarlo, anzi, che rimanga pure nelle ombre. Potrei aprire le pagine di un oramai ingiallito Norwegian Wood, ritrovare una mia sottolineatura in matita ed iniziare a fluttuare tra i ricordi. Con gli occhi persi in un sogno ad occhi aperti, mentre un sorriso si abbozza dal nulla. Vivo così, concedetemelo. Per questo per parlare del nuovo lavoro di Ben Howard basterebbe dirvi solo Agatha’s Song e 2 minuti e 26 secondi:
“And I said to me, I would like to be. Someone kind over cavalier. What have I done with my years.”
Lì. E nei minuti che portano all’epilogo del brano, c’è tutta l’essenza che amo del cantautore britannico. Lì, è dove si racchiude l’atmosfera dolcemente eterea dalla quale lasciarsi avvolgere. Lì, c’è la precisione amanuense di Ben che mi fa entrare nel suo Noonday Dream. Fermarsi ad ascoltare le sue melodie equivale a farsi conquistare da un mondo rarefatto, sospeso tra una leggera brezza che soffia dal Mediterraneo e la sabbia polverosa che si cristallizza tra i capelli. Gli echi romantici di “Nica Libres at Dusk” piuttosto che il vociare confuso che apre il sipario sul tormento soffuso di “Towing the Line” costruiscono granello dopo granello l’aurea intima di cui lo schivo Ben ama nutrirsi. Trame ed intrecci di vita vissuta che si dipanano dal folk, per abbracciare talvolta suggestioni psichedeliche, altre il contraltare nostalgico degli archi e che si concludono in flebili sussulti elettrici.
Ma quel 2:26. Quel 2:26. Mi ha fatto scattare l’immaginario di “Noonday Dream” che è lì e non si toglie dalla mia testa dai primi di giugno. Anzi, mi culla. Mi piace pensare Ben alle prese con un viaggio all’imbrunire su un treno diretto a Marrakech. La testa si appoggia stanca al finestrino, i chilometri si succedono indefiniti, l’uno dietro l’altro. Il sole nei suoi ultimi battiti accieca e colora il cielo di tinte violacee. Un lieve sospiro, qualche sorso d’acqua e Ben torna a fissare il paesaggio. Magari nella speranza di scorgere un raro fiore del deserto in lontananza. I chilometri continuano a scorrere e su un malandato taccuino di pelle, con l’inchiostro della biro oramai secco, annota i suoi pensieri, le sue riflessioni. Perché ecco, sulle parole di Ben ci sarebbe da aprire un intero capitolo, ma davvero mi sento inadeguato per parlarne. La clessidra del tempo scorre inarrestabile e Ben si perde nel labirinto da lui stesso creato, alla ricerca di una vecchia foto conservata nel proprio portafogli e la speranza di trovare un luogo dove mettere l'ancora per un po' di serenità. Ecco, tutto questo nasce da 2:26, credo che sia abbastanza chiaro il mio amore per i dettagli. No?
Quando scocca l’ora di “Murmurations” è buio profondo a Marrakech e pare comparire la presa di coscienza finale di Ben, quasi come nello Straniero di Camus: “Davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo.” Sulla sua pelle ha cucito molte cicatrici, ma con “Noonday Dream” ci invita attorno al suo falò per parlarne, superarle insieme:
"Someone in the doorway. Someone in the light. Someone through the wall always. Someone left outside. Go find someone else, I am not ready to die."
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