Uscito un po' in sordina e senza grandi attese, almeno in Italia, "Tropic Thunder" si sta rivelando come uno dei più interessanti film comici del decennio; sicuramente il migliore dell'anno e, probabilmente, il capolavoro di Ben Stiller, qui aiutato, in fase di scrittura, dal lynchiano Justin Theroux e nientemeno che da Ethan Cohen.

Il film racconta l'epopea di cinque attori, dalle provenienze e carriere diverse, impegnati sul set di "Tropic Thunder", film di guerra che narra delle peripezie di un gruppo di soldati americani chiamati a penetrare nella jungla vietnamita alla ricerca di tal Quadrifoglio Tayback, milite rapito da vietcong e dato per disperso. Per rendere più realistico il tutto, superando i dissidi di troppe star, il regista, su indicazione del "vero" Tayback presente sul set come consulente, il regista (teatrante inglese scarsamente a proprio agio sul set) manda i cinque nella vera jungla, dove, credendo di recitare per buona parte del film, avranno a che vedere con una reale banda di guerriglieri/produttori di eroina, con ovvi devastanti effetti sul piano dell'azione e della comicità.

Non un film di guerra, dunque, nel senso strettamente inteso, e nemmeno un film che fa la parodia dei film di guerra (alla "Hot Spot", per capirci), bensì un film che parodizza coloro che fanno i film di guerra, e dunque mette alla berlina il mondo hollywoodiano che rappresenta la guerra in maniera bozzettistica, artificiosa, o anche titanica, scisso fra business ed espressione artistica, in un gioco e rimando di specchi molto interessante ed efficace, per certi aspetti cinico e disarmante assieme.

In questo gioco metalinguistico non si salva dunque nessuno, né la retorica (al dunque filoamericana) dello Stone di "Platoon", né la sensibilità europeizzante e decadente del Coppola di "Apocalypse Now", nè il disfacimento morale del Cimino de "Il cacciatore" o, tantomeno, il sentimentalismo a buon mercato dello Spielberg di "Salvate il soldato Ryan". Proprio le tecniche registiche, lo stile se non il tocco di questi Autori vengono messe alla berlina in questo film, esasperando il linguaggio dei vari film: dal ralenty enfatico, alle pittoriche fiamme del napalm o dei bombardieri, passando per i primi piani dei protagonisti persi nei boschi o alla ricerca del proprio cuore di tenebra nella foresta vietnamita o cambogiana. Quasi che esasperando la forma di ogni opera si scopra una certa autoreferenzialità - tale da scatenare il riso, quando ci accorgiamo che una cosa seriosa non è forse seria, e sincera, fino in fondo!!! - di tutto il cinema a stelle e strisce (ma non solo).

Il tutto viene rappresentato da una sarabanda di personaggi, gli attori e la troupe del film (compreso il responsabile degli effetti speciali che esordì in "A spasso con Daisy"), che a propria volta costituisce una serie di caratteri enfatizzati, in cui non è difficile cogliere l'archetipo dei veri divi di Hollywood e del relativo entourage: dal decadente protagonista di film d'azione (Stiller) che non è riuscito a riciclarsi né col cinema comico né con quello impegnato, al seguace delle tecniche da actor's studio (Downey jr.) che si immedesima in un uomo di colore fino ad assumerne pose e linguaggio anche fuori scena (micidiale il continuo intercalare "man"), passando per un divo dei film comici eroinomane (Black) poco adatto a girare in condizioni estreme - e soprattutto in astinenza. Attorno a loro si muovono un sacco di personaggi minori, appartenenti allo show biz, fra i quali spiccano soprattutto l'assistente/agente di uno degli attori (McConaughey in sostituzione dell'aspirante suicida Owen Wilson), diviso fra i sentimenti di amicizia ed affetto per il proprio assistito ed la cinica ricerca di danaro e fama, nonché lo spettacoloso produttore Lee Grossman, interpretato da un ottimo e travisato Tom Cruise.

Due cenni proprio a questi personaggi, che, apparentemente secondari, permettono di chiarire un'altra delle caratteristiche del film, ovvero il sottofondo malinconico della commedia, da non vedere questa volta in senso ironico ma quasi come una delle due facce della recitazione (come le maschere classiche, del resto): l'agente, pur sguazzando nella fatuità del mondo dello spettacolo, nasconde il dramma dell'handicap del figlio, probabilmente autistico, che, in un impeto di sincerità che quasi si perde nella miriade di battute del film, dice "di non aver scelto" ma che ama, come si noterà alla fine del film, nel corso di uno sperato quanto inatteso viaggio aereo; il produttore è al contempo di un cinismo e volgarità estremi (manderebbe a morire un attore in decadenza solo per lucrare sulla sua memoria e su un eventuale risarcimento), ma anche intimamente solo, ed il ballo trascinante su cui si conclude il film, all'insegna del lucro e del dollaro, non maschera la malinconia di fondo del personaggio (che manda l'assistente a vantarsi, per Hollywood, dell'eccellente successo di "Tropic Thunder", non cercando nemmeno più le soddisfazioni della carne, dell'alcool o del vizio in genere, limitandosi alla diet Coke).

Un film davvero ben riuscito dunque, in cui riso e dramma si intersecano con una certa leggerezza e piena padronanza tecnica, oltre che con eccellenti prove recitative. Se qualcuno adesso storcerà il naso, tra una decina d'anni sarà sicuramente un'opera di culto.

Non perdetevi, soprattutto, i trailer iniziali.

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