Film del 2005, interpretato da Philp Seymour Hoffman, vincitore di un Oscar (secondo me meritatissimo, un plauso al carisma dell'attore). Questa recensione prescinde da vicenda personale, riferimenti reali e dal libro da cui è tratto il film, si basa esclusivamente sulle impressioni destate in me dall'opera cinematografica.
Il film si sviluppa secondo un ritmo piuttosto lento, bisogna voler seguire il filo narrativo. E voler capire dove vuole andare a parare. Se ci si aspetta un film che tratta di giornalismo investigativo, si è del tutto fuori strada. La vicenda prende sì le mosse dalla strage di una famiglia qualsiasi in una sperduta fattoria di una tranquilla comunità del Kansas, in cui dilaga il terrore per lo sterminio perpetrato senza apparente ragione. Ma la struttura del film si regge sull'ipertrofica personalità dello scrittore Truman Capote, che, appresa dai giornali la notizia, decide in un primo momento di scrivere un articolo sul fatto, poi di trasformarlo in materiale per un vero e proprio libro.
Non c'è filone investigativo: quasi subito vengono acciuffati due stranieri sospetti, accusati e condannati, resteranno imprigionati fino alla fine del film, in attesa che i tempi burocratici della giustizia facciano il loro corso sino alla pena capitale. Durante questo tempo (sei anni) Capote fa conoscenza con i due criminali, stringendo un rapporto ambiguo - a tratti morboso, a tratti crudele - con uno dei due in particolare, Perry Smith, anch'egli individuo a due facce: da un lato anima sensibile, con ambizioni culturali e propensioni artistiche, dall'altro folle e incontrollabile mostro sanguinario.
A parer mio è l'ingombrante personalità di Capote a costituire la sostanza del film: la sua prima apparizione è ad un party, al centro di una comitiva attenta e divertita ai suoi racconti briosi, alle sue battute taglienti e ai suoi modi affettati. Durante tutto il film, il racconto (muto o espresso a parole) di se stesso si sovrappone, occupando ogni angolo, ogni spazio vitale del film, alla vita degli altri personaggi. Il ritratto è quello di un uomo che rincorre soltanto se stesso, nella costruzione della propria immagine al mondo, nell'esposizione di sè attraverso ogni gesto, ogni atto e ogni parola. Tutto ciò che fa pare dettato esclusivamente dal perseguimento del proprio obiettivo, quale che sia al momento (scoprire dettagli sulla vicenda criminosa, salvaguardare la propria relazione sentimentale, alimentare il proprio processo creativo), a prescindere a discapito di chi egli agisca (l'amica, il proprio compagno, il prigioniero). Capote: eccessivo, straborandante, egocentrico, stucchevole, spontaneamente costruito, vanesio, geniale, ipersensibile, ambiguo e fedele solo a se stesso. Questo come l'ho visto io.
Parte della chiave di lettura del suo rapporto alienante con il prigioniero Perry la dà Capote stesso parlando con l'amica che all'inizio lo aiuta nelle ricerche, e cioé che egli vede Perry come un altro sè che, dopo un'infanzia comune nella stessa casa, con gli stessi presupposti e le stesse possibilità, abbia proseguito per la propria strada uscendo dalla porta di servizio, mentre lui, Capote, ne è uscito dalla porta principale.
Che allora il dolore e il turbamento evidenti sul suo viso al momento dell'esecuzione della condanna siano dovuti a sincero senso di colpa per non aver voluto salvare quel suo altro se stesso mostruoso? O per la consapevolezza di non essere in senso più intimo altrettanto crudele (nei confronti persino delle persone che lo amano) e folle (alla rincorsa soltanto della propria musa ispiratrice)? Disperazione nel presenziare alla propria autocondanna o commozione per il tragico (per Perry) e liberatorio (per la propria opera creativa, che finalmente giunge al finale) epilogo? Il vero interrogativo è, direi, sulla coscienza e sulla mente di quest'uomo, su cosa questo libro (l'ultima sua opera compiuta) rappresenti per lui e per la sua vita e rispetto al fatto stesso.
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