Alcuni film sembrano fatti d’ombra e gelo, Capote è uno di quelli. Un film, sobrio, cupo, controllato. Ha un’eleganza austera che può sembrare superficiale e che ha affascinato pubblico e critica, ma sotto la superficie si intuisce qualcosa di disturbante, quel lato oscuro dell’essere umano che è scomodo affrontare.
Novembre 1959: nel cuore del Kansas, una casa si svuota di vita in una notte d’inverno: la famiglia Clutter viene sterminata, e l’eco di quel massacro viaggia fino a New York, dove Truman Capote – scrittore affermato, intellettuale intelligente ma vanitoso, campione di mondanità – legge un trafiletto sul giornale e fiuta una possibilità: trasformare l’orrore in letteratura. Un capolavoro, possibilmente. Ma anche un nuovo palcoscenico.
Parte per il Midwest con Nelle Harper Lee – la tranquilla amica d’infanzia in procinto di scrivere Il buio oltre la siepe. E da lì comincia una discesa nel buio: interviste, sorrisi di circostanza, porte chiuse, fino all’incontro con i due assassini. Uno dei due, Perry Smith, gli si attacca addosso come una macchia difficile da lavare.
Capote è affascinato. Forse innamorato. Di certo, molto ispirato. Perry è tutto ciò che Truman non è: instabile, brutale, senza filtri. E al tempo stesso, sono due facce della stessa tragedia: infanzia segnata dall’abbandono, madri alcolizzate, padri assenti, intelligenze mal indirizzate. Solo che uno ha trovato la letteratura, l’altro la violenza.
Capote oscilla tra affetto e calcolo, tra gesti affettuosi e fredde manipolazioni. Invia doni, scrive lettere commosse, ma nel frattempo prende appunti. Aspetta che i suoi protagonisti vengano condannati a morte per finire il libro. È il preludio della crisi dell’autore, che non riesce a concludere l’opera finché i personaggi non spariscono dalla scena. Letteralmente.
Philip Seymour Hoffman si è trasformato in Capote: la voce, i tic, la gestualità, una presenza fragile ma pungente. È un Truman Capote più vero del vero. E, per una volta, l’Oscar non è tirato a caso o per ragioni “politiche” ma per un’interpretazione impeccabile.
La regia di Bennett Miller non cerca mai di sedurre: accompagna, osserva, lascia spazio al silenzio. E nel silenzio, tutto si amplifica. La fotografia è fredda e claustrofobica. La colonna sonora non consola: sottolinea il vuoto.
Il film, glaciale e malinconico, è la cronaca di un compromesso morale, l’anatomia di un’anima brillante che sceglie, consapevolmente, di diventare mostro pur di scrivere il suo capolavoro.
Disponibile su Prime Video. Guardatelo quando avete voglia di qualcosa di bello, ma non rasserenante.
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Nota a margine: il titolo originale è Capote, adattato per il pubblico italiano che probabilmente non ha familiarità con l'autore.
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Altre recensioni
Di uxo
Capote: eccessivo, straborandante, egocentrico, stucchevole, spontaneamente costruito, vanesio, geniale, ipersensibile, ambiguo e fedele solo a se stesso.
Il vero interrogativo è sulla coscienza e sulla mente di quest’uomo, su cosa questo libro rappresenti per lui e per la sua vita e rispetto al fatto stesso.