Adesso non mi fate passare per il fan irriducibile di Bill Callahan, non immaginatemi a grattare la vetrina del negozio di dischi nell'attesa dell'arrivo dell'ultima prova da studio di colui che un tempo si faceva chiamare Smog.
Niente di tutto questo: come è successo con il precedente “Sometimes I Wish We Were an Eagle”, mi accingo all'ascolto di questo “Apocalypse” con rilassato ritardo, con la consapevolezza di non impossessarmi dell'uscita dell'anno, ma con la certezza di trovarmi innanzi ad un buon lavoro. Se poi rimango l'unico qua a recensire (con rilassato ritardo) un artista come Bill Callahan, è solo un caso, anche se continuo a domandarmi il perché non altri lo facciano, quando parliamo di un artista con un passato illustre, un nutrito seguito, un artista che si ritrova oggi a rivivere una seconda giovinezza in mezzo al contenuto crepitio degli applausi di critica e fan.
“Seconda giovinezza” (artistica) che in verità equivale ad una “prima vecchiaia” (biografica): fase che vede il nostro “Smog-non più Smog” intraprendere un brillante cammino cantautoriale che lo smarca dall'immaginario indie di cui per anni è stato un interprete fondamentale per proiettarlo nelle fila dei cantautori contemporanei americani.
“Apocalypse”, del 2011, non fa altro che riprendere con coerenza i passi percorsi con il lavoro di due anni fa: lavoro che seppe sorprendere più di un addetto ai lavori per la maturità che l'artista ha dimostrato nello svestire i panni dello stralunato indie-rocker per introdursi in quelli dimessi del raffinato cantautore.
Indubbiamente meno eterogeneo del suo predecessore, ma non inferiore quanto ad ispirazione, “Apocalypse” rifinisce ulteriormente i contorni della nuova incarnazione artistica di Callahan, portandolo ad un nuovo livello di equilibrio formale, eliminando definitivamente quelle scorie “rock” appartenenti al passato che ancora avevano “sporcato” quell'intimo cantautorato, definitivo approdo artistico di un autore che continua a percorrere la sua strada all'insegna della totale devozione ai temi della propria interiorità.
Anche se poi l'Apocalisse di Callahan, indubbiamente relegabile ad una dimensione individuale, è riallacciabile a quella di un paese intero, gli Stati Uniti d'America: un paese logorato, sospeso fra un presente difficile ed un incerto futuro, condizione che spingono l'autore a ricercare un conforto in se stesso, nel passato e nelle tradizioni della propria terra, in assoluta avversione a quel mondo globale che fino a poco tempo fa veniva sbandierato come il modello da perseguire a tutti i costi.
I tre brani iniziali, “Drover”, “Baby's Breath” (capolavoro) e “America!”, si muovono proprio nel paradosso di un uomo che canta di sé, e che cantando per sé, finisce per cantare anche per la terra che gli ha dato i natali, poiché egli è l'America, e i problemi dell'America si riflettono e rimodellano dentro di lui. E già in questi tre brani troviamo condensati gli umori dell'album intero, nonché gli ingredienti che compongono la sfaccettata visione artistica dell'autore (cosicché nella prima troviamo un Callahan sospeso fra malinconia ed epicità western, nella seconda un Callahan inguaribile romantico, nella terza un Callahan scanzonato, ironico e sarcastico). E' la capacità di sintesi (effetto di una maggiore focalizzazione della propria visione artistica e dell'accresciuta consapevolezza dei propri mezzi) a caratterizzare questo album che, anche per la durata contenuta (solo sette brani, per quaranta minuti, di cui dieci sono spesi solo per la traccia conclusiva), possiamo definire come un vero “gioiellino”, curato in ogni suo dettaglio, a partire dalla bellissima copertina.
Come si diceva prima, “Sometimes I Wish We Were an Eagle” era stata una vera sorpresa (una piacevole sorpresa) per gli estimatori di Smog (e non), un lavoro ispirato e impreziosito da arrangiamenti che andavano ad arricchire e diversificare un album che sapeva brillare per i suoi contenuti. Se a tratti tuttavia Callahan sembrava perdere il controllo del timone, confezionando un album eterogeneo che, pur vivendo di guizzi, non sapeva rinunciare a nessuna delle pulsioni che avevano ispirato la penna de suo autore, già dalle prime note di “Dover” capiamo che Callahan, pur riprendendo il cammino dalle medesime premesse, approda ad una dimensione più matura e coesa: arrangiamenti semplici ma efficaci, suoni e strumenti meglio amalgamati che in passato, il tutto al servizio di un cantautorato sempre più personale, ma non per questo meno determinato ad immergersi devotamente nei fasti della tradizione folk americana, con quel pizzico di Nick Cave che rende il tutto più accattivante: impossibile, infatti, non pensare all'artista australiano udendo i vagiti baritonali che aprono il pezzo, presto seguiti dalle sferzate acide di una chitarra che per tutta la durata dell'album oscillerà fra folk e blues, senza rinunciare a ricami elettrici che tuttavia non andranno a destabilizzare l'impostazione essenzialmente acustica dell'opera.
Ma nonostante nel complesso questo “Apocalyspe” ci appaia in una forma più minimale del suo predecessore, lo spettro umorale esplorato è tanto complesso quanto in passato, mostrandoci un artista poliedrico e capace di passare in rassegna i più svariati stati d'animo, tutti comunque convergenti nell'amarezza e nel disincanto di chi asseconda un moto interiore che sembra voler prendere le distanze dal proprio Io per condurre ad un Io più profondo, incontaminato, puro; condurre ad un'arcadia spirituale fatta di onestà e rispetto per sé e per gli altri; smarrirsi nelle praterie simboliche, nelle montagne immaginarie di un America idealizzata specchio di quello che si vorrebbe essere: una strada che assume non a caso i contorni apocalittici di un “rito pagano”, di un percorso di catarsi chiamato a condurre l'inquieto viandante al di fuori del proprio disagio esistenziale (“With the TV on mute/ I'm listening back to the tapes/ On the hotel bed/ My my my apocalipse” recita la paradigmatica “Riding for the Feeling”), passo necessario per la riappacificazione con se stessi (il fischiettare, il flautino bucolico, i piatti jazzati da domenica mattina di “Free's”), un passo che gli restituisca finalmente la “libertà di essere”.
“La libertà di essere”. “To be free in bad times and good/ To belong to being derided for things I don't believe/ And lauded for things I did not do”: ai quasi dieci minuti di “One Fine Morning”, ai lontani fraseggi di chitarra, allo svolazzare del pianoforte, al caldo timbro tenorile di Callahan spetta l'onore di riassumere, ripercorrere le tappe di quest'ultimo viaggio esistenziale (quasi che si potrebbe parlare di un concept con un suo coerente svolgimento), un blando girovagare apparentemente senza meta, un pascolo alla ricerca della nemesi in terre incontaminate.
E' la sua Apocalisse. Ma anche la sua rinascita. Più personale di così si muore.
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