La morte è un'esperienza unica, dolorosa, lacerante: lascia tracce indelebili e durature. E' però, al tempo stesso, un'esperienza di fondamentale importanza conoscitiva di noi stessi, che ci permette di venire a conoscenza di lati del nostro essere che il più delle volte nemmeno immaginavamo di avere. 

Lo sa bene Bill Evans, che con il dolore della morte ha dovuto convivere a lungo; una convivenza che ha lasciato tracce non solo sull'uomo Evans, ma anche sull'Evans artista. Un segno profondo, che ha scavato sicuramente un solco nel pianista americano e che si è ovviamente riversata anche su quel pianoforte con cui Bill era semplicemente un tutt'uno: impossibile scinderli. 

"Moonbeams", registrato nel Maggio/Giugno del 1962, è un'opera che ha al suo centro il tema della prematura scomparsa, che viene qui richiamata non in modo eccessivamente greve, ma in maniera quasi candida, lucida, drammaticamente umana. Il disco infatti rappresenta la prima incisione di Bill Evans con il suo nuovo trio dalla morte del contrabbassista Scott LaFaro, avvenuta appena due settimane dopo quello storico 25 Giugno 1961, giorno del live del Trio di Evans al Village Vanguard (una data scolpita nella memoria del jazz tutto). Nel mezzo tra la tragedia e il ritorno in studio ci fu tanta sofferenza per il timido pianista, una sofferenza talmente forte e sentita da fargli meditare il ritiro dal mondo jazzistico. Fortunatamente per noi ciò non avvenne e, spinto anche dal nuovo contrabbassista del gruppo Chuck Israel, Evans affronta a modo suo il ricordo di LaFaro: licenziando un disco di sole ballads chiamato appunto "Moonbeams" e dedicato, almeno indirettamente, all'amico.

L'apertura con "Re: Person I Knew" a dire il vero sorprende un pò visto le premesse: dopo un'introduzione di piano, l'entrata della batteria (è sempre il fido Paul Motian dietro le pelli, elemento che si rivelerà fondamentale per la riuscita del disco) stabilizza il groove su di un tempo medio sul quale Evans scioglie la prima improvvisazione su una progressione modale a lui molto cara: il tocco è inconfondibile, con quella sapienza di swing ineguagliata, impressionismi ed echi classici di derivazione "debussyana". Elemento di novità rispetto ai lavori precedenti è sicuramente l'approccio di Israel, e non poteva essere altrimenti. Israel è un contrabbassista diverso da LaFaro, meno "solista" ed energico: il suo è un approccio più sottile, attento ad inserirsi nelle pieghe pianistiche evansiane, in un dialogo differente, ma non per questo meno efficace, tra piano e contrabbasso. La sua capacità di risposta al pianoforte e di feeling molto empatico piacerà non poco ad Evans. 

Il disco si snoda successivamente tra una ballad e l'altra: una di queste è "Stairway To The Stars", accompagnata magnificamente da Motian, da sempre sopraffino e fantasioso innovatore del suo strumento, titolare di uno dei più bei suoni di "strisciato" di spazzole di tutto il Jazz - almeno secondo chi scrive. La sua incredibile capacità di rendere la batteria uno strumento spazioso, dilatando il ritmo all'inverosimile, facendo un uso quantomai originale delle pause lo rendono un ingrediente fondamentale del trio e qui la sua capacità di rispondere ad Evans è tra le cose più belle di tutto il disco. Altrettanto degne di menzione sono il valzer finale "Very Early", a firma di Evans, con uno dei rari solo di contrabbasso di Israel e "It Might As Well Be Spring", condotta da pianoforte di Evans in maniera mirevole, con una delicatezza e un gusto che ancora oggi sorprendono e incantano. 

E' difatti il lirismo del piano evansiano ad essere al centro di quest'opera: pur con al di sotto, come detto, una solida base di interplay assoluto tra i tre musicisti - e tra Motian e Evans in particolare, veramente quasi legati a doppio filo l'uno all'altro  -, sono quelle note cristalline, dense e toccanti di piano che marchiano a fuoco il lavoro facendosi apprezzare anche come elemento di novità per Bill stesso, che troviamo qui su "Moonbeams" più introspettivo che mai, molto chiuso in sè stesso, ad espressione di quello che la scomparsa di LaFaro gli aveva lasciato. L'interpretazione di "Polka Dots And Moonbeams" è in questo senso struggente, sospesa a metà tra suoni onirici e squarci di velata tristezza che Evans distribuisce senza riserve, regalandoci quella che è sicuramente la perla del disco e probabilmente una delle sue più belle interpretazioni di sempre. 

Miles descrisse lo stile di Evans "like crystal notes or sparkling water cascading down from some clear waterfall". Se volete sentire qualche goccia, "Moonbeams" è un buon inizio. Dopo, basterà lasciarsi andare.

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