«Shine A Light» è un disco bellissimo.

Ne ho avuta la prima sensazione quando in estate è stato pubblicato in rete il video che annunciava il progetto e la canzone che idealmente gli dà il titolo.

Poi, ne sono venute poche altre, di canzoni, ma bastanti perché la sensazione si consolidasse.

Fino al 23 settembre, quando è avvenuta la pubblicazione.

Ed oggi quella sensazione è una certezza: questo disco è bellissimo.

È un disco a tema, di stazioni e di treni.

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I millanta viaggi in treno sono, per me, una scatola dei ricordi preziosissima.

Come quando, in treno, incontrai dopo anni una fiamma adolescenziale, sentimento peraltro non corrisposto.

Fosse solo per questo, «Shine A Light» sarebbe comunque un disco bellissimo.

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Ma non è solo questo.

È che «Shine A Light» vede la partecipazione di Billy Bragg.

Billy Bragg, ormai, è uno di famiglia.

Mi introdusse a lui mio fratello, che rimase folgorato dai suoi primi dischi, e, con il pretesto di regalarmelo, portò a casa «Talking With The Taxman About Poetry».

Pochi mesi dopo, mi portò con lui al concerto che Billy suonò a Castel Sant’Angelo. Se non il primo in assoluto, fu uno dei primi concerti cui partecipai, e furono talmente intense le emozioni che ne ricavai che, ancora oggi, sento risuonare nelle orecchie l’immancabile ronzio post-concerto, quando gli amplificatori sono stati spenti, pure le luci del palco, e tu ti decidi a tornartene a casa.

È una storia vecchia di trent’anni, Billy aveva appena dato alle stampe «Talking With The Taxman About Poetry», colto in un magnifico momento di transizione, costretto ad interrogarsi se fosse meglio votare rosso per lui o verde per suo figlio, come qualcuno sintetizzò in modo magistrale.

Gli volli bene fin da subito, a Billy Guitar, gli voglio bene ancor di pù oggi, se possibile.

Oggi che i capelli sono tutti bianchi e si è fatto crescere la barba ed è bianca pure qualla, ha smesso la chitarra elettrica e ne imbraccia una acustica, la sua musica non ha più alcun appiglio con le ruvidezze punk che l’avevano formata, ma tanti con il folclore, inteso nel suo significato originale di studio della tradizione popolare e delle sue manifestazioni.

In tal senso, «Shine A Light» è l’ideale prosecuzione di «Mermaid Avenue», la momumentale opera compiuta con i Wilco sui testi di Woody Guthrie, ormai vent’anni fa.

Sono dischi bellissimi, i tre volumi di «Mermaid Avenue», allo stesso modo in cui è un disco bellissimo, qui ed oggi, «Shine A Light».

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Dopo settimane trascorse viaggiando insieme sugli stessi treni, glielo chiesi perché non avesse mai acconsentito al mio corteggiamento. «Ti consideravo troppo superficiale, poco serio» o giù di lì. Ci conoscemmo che io avevo quindici anni, lei quattordici, ecco.

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«Shine A Light» vede la partecipazione di Joe Henry.

Joe Henry, per mia colpa, lo conosco da molto meno tempo di Billy.

In effetti, sì, sono sempre stato abbastanza superficiale, e non avevo mai notato che su tanti dischi che apprezzo - da Allen Toussaint ad Aaron Neville, da Ani Di Franco a Lisa Hannigan - il nome di Joe Henry è stampato lì, in bella evidenza, nella veste di produttore.

No, Joe l’ho conosciuto nella sua veste di musicista, grazie al bellissimo «Invisible Hour» del 2014, disco sospeso in rarefatte atmosfere folk, tra il Van Morrison di «Astral Weeks» ed il Leonard Cohen di «Songs From A Room», senza naturalmente raggiungere quelle vette, altrimenti ben più avrebbero gridato al miracolo, ma comunque un disco davvero degno di menzione.

Il suo esordio è datato addirittura 1986 ed ora sto lentamente recuperando il terreno perso, con grande soddisfazione.

Come i Wilco si dimostrarono i compagni ideali di Billy in «Mermaid Avenue», così Joe è il compagno ideale in «Shine A Light»: se Billy è l’azione, il passionale propugnatore di un ideale, Joe è la parola, il teorico che ricostruisce quell’ideale da tante minime storie.

È opinione corrente che l’azione parli con voce più netta della parola; ma quello che ho capito, o frainteso, è che, senza la parola, l’azione è poco più di nulla.

Allo stesso modo, senza Joe questo disco non sarebbe stato bellissimo, come è.

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Un po’ mi stupii per quella risposta e a vent’anni cominciai a riflettere sulla mia superficialità e scarsa serietà.

Aveva ragione lei e, come spesso nella mia vita, è qualcun altro ad aver ragione su di me.

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«Shine A Light» sono tredici canzoni della tradizione popolare, composte nella prima metà del Novecento.

Meglio, sono tredici minime storie che, più o meno per inciso, raccontano anche di stazioni e di treni, ma più di tutto sono le storie delle donne e degli uomini che quelle stazioni e quei treni li vivono.

Sono canzoni per lo più celebri, perché suonate e suonate migliaia di volte negli anni ed ormai entrate a far parte del patrimonio popolare e culturale, da «Rock Island Line» a «The L&N Don’t Stop Here Anymore», da «The Midnight Special» a «In The Pines», da «Gentle On My Mind» a «Hobo’s Lullaby».

Però raramente sono risuonate così intense, partecipate. Solo per voci e chitarre, quelle di Billy e Joe.

Lo si potrebbe definire un album dal vivo, perché Billy e Joe suonano nelle stazioni, sui treni, ed in sottofondo si distinguono tutti i rumori che ti aspetteresti di sentire in analoghe circostanze: treni che arrivano e poi partono, le conversazioni dei viaggiatori, gli operai al lavoro, merci scaricate e di nuove che sono caricate sui vagoni, l’applauso di qualche curioso fermatosi per capire cosa stiano facendo quei due e così perde il suo treno e dovrà attendere il prossimo che passerà.

Rumori disturbanti? Assolutamente no, al contrario, quello che fa di «Shine A Light» un disco vivo, piuttosto che un disco dal vivo. Ed un disco bellissimo.

La mia discoteca è persa nel disordine più indefinito, alcuni dischi disordinati alfabeticamente, altri cronologicamente, altri emotivamente.

Ora «Shine A Light» è disordinato emotivamente, al fianco di «Unearthed» di Johnny Cash, domani chissà.

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Cosa ribattere mi venne in mente solo molto tempo dopo, come sempre, e lo feci sostenendo qualcosa del genere che poi ero cresciuto e maturato ed avevo pure acquisito un briciolo di buon senso.

«Solo che non ho più quattordici anni», parole testuali e queste non me le scorderò mai.

«Shine A Light» glielo regalerò.

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