Il cantante e bassista britannico Glenn Hughes (Trapeze, Deep Purple, Black Sabbath e una sfilza di dischi solisti e collaborazioni) non mi ha mai convinto del tutto: grandi mezzi ed energia ma avverto da sempre un qualcosa di forzato, di meccanico in tutto quello che fa e canta e sbraita e suona.
Il chitarrista americano Joe Bonamassa non lo conosco ancora abbastanza, chiaro che sappia suonare molto bene ma nulla di non soprassedibile, almeno per ora e per me. Mi sembra che questa generazione di chitarristi del nuovo millennio che si rifanno agli anni settanta abbia anche troppo rispetto per i Page i Kossoff e i Beck, i Clapton i Blackmore e i Moore, tanto da non riuscire a decollare dai loro schemi è raggiungere una propria personale incisività. E poi, esattamente come Hughes, questo tizio pubblica troppa musica, con l’iper produttività che porta all’annacquamento.
Il tastierista Derek Sherinan (ex Dream Theater) mi pare da sempre un gran gregarione, non ho scandagliato i suoi dischi solisti e quelli di musica fusion insieme ad altri virtuosoni, ma qui non combina pressoché un tubo, tiene giù le dita sui tasti dell’Hammond e non compie un passaggio d’eccellenza, una suonata sorprendente. “Riempie” e basta.
Risulta allora che all’ascolto di questi Black Country Communion il musicista che mi comunica più interesse e ammirazione sia di gran lunga il batterista Jason Bonham: è perfetto! L’impegnativo fardello di essere confrontato puntualmente (e senza speranza) all’immane figura del padre John gli toccherà per tutta la vita, ma è stato tuttavia capace di crescere e perfezionarsi con gli anni, ripulendo il suo stile all’inizio troppo ansioso di strafare, fino a diventare uno dei migliori batteristi “pesanti” al mondo. Pesta duro, preciso e intelligente, un piacere ascoltarlo.
Questo è il terzo ed ultimo disco del quartetto (anno 2012), dopodiché il litigio e ognuno per la sua strada, e praticamente è un lavoro di Glenn Hughes: compone e canta tutto lui. Il Bonamassa, distratto dagli altri suoi mille progetti e probabilmente colle palle già piene del vulcanico socio, si limita a fare il compitino e mette la chitarra nel suo stile piacevole, competente e virtuosamente privo di orpelli e sovrastrutture, ma purtroppo anche di genio.
Il genere è quello giusto e la produzione d’alto bordo (al lavoro Kevin Shirley, uno che si è passato più o meno tutti i pezzi grossi dell’hard), eppure il tutto suona sterile, vuoto, inutile, didascalico. C’è sudore, ma è quello di una palestra di fitness, non quello della strada. I suoni sono troppo rotondi, non c’è interazione, follia, sentimento. Hughes spinge e spinge, ma fa l’effetto degli animatori di comitive, che si accendono di allegria e brillantezza a comando, e poi non è un cantante rock, non lo è mai stato: è un cantante soul, quindi fuori contesto.
Il pezzo migliore del lotto è quello eponimo: inizio con chitarra acustica e archi di retrogusto Zeppeliniano, seguiti dal canto per l’occasione mezzo falsettato in stile Gary Moore, con Hughes che fatica ad addolcire la voce (per certo non è un tipo da ballate, ad esempio), spingendo anche nei momenti più rarefatti; sei minuti ben congegnati, comunque.
Il resto è una sequela di situazioni standard del rock duro così come le hanno sapute concepire a suo tempo gli Who (mi riferisco a “Midnight Sun”), gli Zeppelin (l’apertura “This Is Your Time” e poi “Dandelion”), i Rush (evocati su “Confessor”), i Deep Purple nei momenti in cui Sheridan riesce a venire un po’ a galla con l’organo. E quando per il gran finale ci si ritrova i soliti archi orientaleggianti a’la John Paul Jones, ondeggianti sopra i pachidermici tonfi in tempo lento della batteria di Bonham, si può solo pensare “abbiamo già dato…” e al termine del pezzo riporre l’album fra gli ascolti sporadici anzichenò.
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