Non si sa perché ascoltando giovani gruppi si debba cercare per forza chissà quali novità o invenzioni, quando a volte per godersi un buon album basterebbe ascoltarlo senza pregiudizzi aspettandosi nulla di più che buona musica suonata con passione.

Con tale spirito ho deciso di ascoltare i Black Stone Cherry, quattro ragazzi del Kentachy poco più che ventenni, che dopo l'omonimo  debut album tornano sul mercato con "Folklore and Supersition". Curiosità destava il fatto che tutte le recensioni lette accostavano i BSC ai Lynrid Skynrid per sound e songwriting, ma ascoltandoli si nota subito che le loro influenze musicali sono molteplici,  i BSC sono uno di quei gruppi che prendono ispirazione da tutti i maestri del rock anni ‘70/'80, quindi troviamo citazioni si dei Lynrid Skynrid, ma anche Led Zeppelin, Bruce Springsteen, Guns ‘n' Roses ecc.; tale miscuglio rende l'album vario, frizzante, con brani pieni di energia che si alternano coinvolgendo l'ascoltatore con sonorità familiari.

La loro formula quindi è quella classica dell'hard rock a stelle e strisce, si suona duro, ma un'attenzione particolare viene rivolta alla melodia, che utilizzata con  parsimonia caratterizza i brani con refrain capaci di inchiodarsi nella testa per giorni; altra mossa vincente risulta l'utilizzo di cori gospel all'interno di svariati brani, dando un tocco di personalità a composizioni già di per se valide. Punto di forza dell'album e del gruppo è il cantante/chitarrista Chris Robertson che dotato di gran voce riesce a sfruttarla a dovere con interpretazioni a volte sublimi come nel caso di "Peace Is Free", ballata di spessore capace di trasmettere emozioni forti, oppure "Soul Creek" brano da stadio cantato con un'energia paragonabile al Bruce Springsteen dei tempi migliori (in effetti il brano ricorda molto lo stile del Boss).

Gli altri componenti del gruppo fanno comunque il loro dovere, suonando con grinta, passione e capacità, marchiando a fuoco brani come l'opener "Blind Man" caratterizzato da un  riff macigno che ci trasporta su sonorità tipicamente anni settanta, la linea melodica coinvolgente poi sfocia in un ritornello ad effetto che presenta nel modo migliore le caratteristiche principali dei BSC.

Volendo citare altri brani, degni di nota sono "The Bitter End" up tempo nevrotico in cui i BSC fanno sentire quanto sia varia la loro conoscenza della musica, da godere l'assolo di Ben Wells ed un finale cadenzato e coinvolgente e "Long Sleeves" che si rivela chiaramente tra i brani migliori dell'album in quanto rappresenta la dimensione musicale più adatta e redditizia per i BSC, il ritmo cadenzato e quadrato del brano infatti dà  maggiore possibilità ai singoli musicisti di esprimersi al meglio.

Concludendo, l'album non convince per originalità, ma per la qualità della musica proposta sì, inoltre calcolando la loro giovanissima età non si poteva pretendere di più, sono convinto che con il passare del tempo, scriveranno musica con maggiore personalità, perché i presupposti per divenire grandi ci sono tutti.

Da scoprire.

Voto 3,5

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