Buona fine luglio a tutti! Esordisco su questo sito, più unico che raro, con una recensione su un album già ahimè recensito (comunque ottimamente recensito, quindi non volermene male, caro Deneil!), che però, poco da fare, adoro. Si tratta di Blind Faith, anno di grazia 1969. Lo acquistai su cd sette anni fa oramai, all'epoca ero un sedicenne affamato di rockblues, e nella mia fame cronica di chitarristi blues, mi avvicinai a quest'album per il nome strillato nel retro della copertina di un certo chitarrista che vi suona, più che per tutti gli altri eccezionali musicisti. Non fu nemmeno amore a prima vista: cercavo Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Cream, e questo album a dirla tutta mi suonava decisamente lontano, vecchio, datato da quello che cercavo in quel periodo. Eppure, come coi vini, anche i gusti musicali lentamente migliorano, e questo album mi ha conquistato inesorabilmente, e continua a stregarmi come pochi altri sanno fare...

 Ma passiamo al disco.  Come detto, correva l'anno 1969. Si dà il caso che giusto alla fine dell'anno precedente due dei più grandi gruppi pop rock inglesi di quei stupefacenti anni si fossero sciolti. Si trattava dei Cream e dei Traffic. I Cream erano costituiti da Eric Clapton alla chitarra, Jack Bruce al basso e Ginger Baker alla batteria, avevano rivoluzionato il blues allargandolo alle visioni psichedeliche e portandolo a livelli di distorsione inauditi per l'epoca (e proprio per questo epocali). Tuttavia, dopo appena due anni, erano scoppiati, per tensioni interne e per divergenze musicali, In particolare, i tre musicisti erano stanchi dei limiti del blues, dei ritmi stressanti del successo e pure del volume e dell'irruenza del loro sound. In particolare, Eric Clapton aveve maturato la decisione di chiudere col gruppo dopo aver sentito quel gran pezzo di disco intitolato "Music From The Big Pink" di una certa Band. Dall'altra parte, i Traffic erano stati uno dei gruppi più  originali del 1967-68 col loro pop psichedelico ricco di venature folk e jazz, grazie all'apporto dei fiati. Ma la colonna portante del gruppo era il cantante e tastierista (ma anche polistrumentista, diciamocelo apertamente) Stevie Winwood. E proprio Winwood, appena ventenne ma già illustre e alle luci della ribalta pop da quasi un lustro, affetto da sindrome di eccesso di successo, decide di chiudere col suo gruppo per un pò di tempo; non certo per rinunciare a suonare però. E se aggiungi che Eric e Stevie sono parecchio amici (hanno suonato insieme anni prima per brevissimo tempo nei Powerhouse, ma è un'altra storia...) e liberi da impegni, è inevitabile che i due inizino a suonare un pò di jam e perchè no, anche qualche pezzo proprio, per divertirsi (non solo divertimento in realtà: Stevie vuole salvare l'amico da un sempre più feroce attaccamento alla droga, e allora perchè non provarci tirandosi su il morale suonando?) ma anche per cercare qualche nuova via musicale a livello individuale, sotto l'influenza di quella Musica dalla Grande Casa Rosa.

Serve però un batterista, e dal momento che Eric, al momento di chiudere coi Cream, aveva promesso a quel gigante delle percussioni nonchè compagno di gruppo chiamato Ginger Baker di chiamarlo se avesse avuto qualche ideuzza per la testa, decide di soddisfare la promessa. Sembrerebbe andare tutto liscio come l'olio, divertimento, rilassatezza, niente pressioni di manager petulanti e di case discografiche alla ricerca di primati di vendite. Senonchè, bè si sa che tutto il mondo è paese, e anche a Londra le voci circolano, e quando riguardano dei tipi chiamati Winwood, Clapton e Baker....ed è così che il ritiro idilliaco dei tre musicisti finisce presto. Anzi, ironia della sorte vuole che Baker e Clapton da una parte e Winwood dall'altra siano divisi da due scuderie discografiche diverse, che per risolvere il problema (in parole povere: per guadagnarci, e  anche tanto, tutte e due), decidono di far uscire il disco con l'etichetta cui sono legati i primi due, la Polydor, col patrocinio però del boss della Island, che vanta diritti su Winwood. Oltrettutto, con impegni discografici e concertistici in vista, i tre pensano bene di allargare l'organico al bassista e violinista francese Ric Grech, fuoriuscito da brevissimo dai Family.

 Ecco così nascere in breve tempo questo bellissimo disco, che deve però fare i conti con la mancanza oggettiva di tempo e quindi anche di allineare abastanza materiale.

Il disco si apre con un pezzo jazz blues di Winwood, "Had To Cry Today", dove a farla da padrone è proprio la chitarra di Clapton: a partire dalla base del riff infatti il nostro Eric si lancia in una serie di assolo sovrapposti ma assolutamente incastonati in questo gioiello di pezzo, e siamo ben lontani dal suono di Bluesbreakers e Cream, il suono ha solo un leggero overdrive, è pulito, preciso e riverberato, e sentire Eric suonare così, vi assicuro che è una goduria unica. Ma il meglio arriva col pezzo successivo, la stupenda ballata acustica "I Can't Find My Way Home", sempre di Winwood. La sua voce, eterea, dolce e così fragile sembra sempre sul punto di spezzarsi, accompagnata magistralmente dai compagni, che conferiscono, con l'impasto di chitarra acustica, batteria molto soffice e basso lievemente accennato, un'atmosfera eterea e trasognata.  Come terza traccia troviamo una cover, "Well All Right", rubata al catalogo di Buddy Holly, e riletta in chiave pop rock, che spicca nel finale con un improvvisazione jazz micidiale. Non si tratta di un pezzo minore, quanto invece di un chiaro esempio di divertissement che i quattro amavano fare. A chiusura del primo lato del vinile troviamo un'altra gemma, questa volta di Eric Clapton: "Presence Of The Lord". Chiaramente influenzato da "While My Guitar Gently Weeps" dell'amico George Harrison, alla quale aveva regalato un memorabile e insuperato assolo, e col quale aveva scritto l'ultimo successo dei Cream, "Badge", questo pezzo si allinea a quelli appena citati per un ritmo lento, solenne e maestoso, forse molto figlio dei suoi tempi (e ripetuto alla noia neglia anni successivi), ma non per questo meno gustoso.

Il secondo lato ha solo due titoli. Si ritorna a Winwood, che propone "Sea Of Joy", il pezzo più malinconico del disco, a dispetto del titolo ma comunque il più affascinante assieme "Can't Find My Way Home"; il lamento doloroso di Winwood è immerso nella melodia folk, col violino di Grech in bella vista. E ora arriviamo al pezzo più controverso dell'album, o meglio, al pezzo dalla durata più controversa. Non c'è dubbio che "Do What You Like" trova la sua ragione nel proporre l'ennesimo virtutosismo batteristico di Baker, che è anche il compositore del pezzo, ma anche nella necessità di far coprire all'Lp una durata di 40 minuti; necessità ancora più sentita, dal momento che il gruppo non era riuscito ad assemblere abbastanza materiale. Tuttavia il pezzo, che paga una forte assomiglianza a "What A Bringdown" sempre di Ginger (compare su l'ultimo album dei Cream), è abbastanza godibile nei primi cinque minuti, in cui ci regala gli stupendi assolo di organo di Winwood (molto folk, molto celtico) e di Clapton (molto latineggiante, quasi santaneggiante, se non fosse che il disco uscì in contemporanea o poco prima dell'esordio dei Santana), per poi sprofondare con un fraseggio di basso di Grech di cui avremmo fatto volentieri a meno e un lungo (ma tenuto conto del personaggio non il più lungo) assolo di batteria e infine una coda in cui si riprende il tema conduttore. Peccato, perchè rappresenta l'unico punto debole di questo album. Punto debole che però non scalfisce la grandezza della musica perchè quella è e resterà sempre sublime. E anche da sola. Dopo un tormentato tour americano in cui il gruppo dovrà affrontare la scarsa quantità di materiale da suonare dal vivo, le esigenze di management onnipresenti e le urla ossessionanti dei fans dei Cream per sentire i pezzi di quel gruppo riproposti dalla nuova formazione, i Blind Faith non reggono il colpo, con Clapton sempre più depresso e immerso nella droga pesante, e i singoli membri che prendono nuove vie. Ma questa è Storia, quello che conta è la Musica dei Blind Faith.

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