Ci sono due principali tendenze, facilmente riconoscibili, nell'alternativa giapponese. La prima è quella imitativa, che partendo da un'acritica genuflessione all'Occidente arriva o a una pedissequa imitazione o a un sincero encomio ai nostri stili; la seconda è quella di prendere un approccio, un suono o un genere occidentale e rielaborarlo, magari prendendo il sentire nipponico come base, pasticciandolo in una fiera del famolo strano, se va bene molto originale, se va male affine alla vaccata.

Ora, mentre la seconda varietà, ben più esotica, trova comunque un pubblico fuori dall'isola, anche se ristretto, la seconda tende, appunto per la sua natura derivativa, a restare oscura. Questi corollari, a mezzo tra l'oriente e l'occidente, sono molto meno conosciuti, com'è naturale, dei loro fratellastri sperimentali.

Ma è chiaro che anche il Giappone possiede i suoi capolavori rock.

Non sono un esperto di musica giapponese e non so se i bloodthirsty butchers siano effettivamente riveriti in patria o se abbiano avuto peso sugli scenari indie successivi. Provengono dall'Hokkaido, l'isola più a nord dell'arcipelago, la meno popolata e più inospitale. Un panorama freddo li ha visti crescere e la sua malinconia si intravede nel disco.

Kocorono è un album in minore, un pezzo da novanta, in tutti i sensi, come epoca di provenienza, come durata, come tema, come cura nei suoni. Richiede un ascolto attento ma ripaga largo.

Tranne le conclusive, le tracce del disco sono intitolate secondo i mesi dell'anno. Da febbraio a gennaio è facile immaginare il mutare dell'ambiente, che dalla rabbiosa primavera stempera e si dilata in un'estate carica di crescendo e overdrive – il culmine del disco, July, è una vera fioritura di suoni e vita – la quale, dopo settembre, tirata al limite dei vuoti e delle pause, nell'autunno scoppia di nuovo in distorsioni, questa volta più cupe e sconsolate. Il basso si fa plumbeo e ponderoso, la chitarra, allo stesso tempo più acuta e più chiusa di prima, a seconda, non presenta le melodie sognanti della prima parte del disco ma si piega piuttosto verso l'elettronica, per tornare poi al punto di partenza, o per meglio dire per riunire poi i due stili, autunno-inverno e inverno-primavera, nella finale January.

Se le stagioni vanno in tondo, il disco va però alla deriva. La distanza dalla persona amata (forzata? Della durata di un anno? Mi viene in mente la Megadhūta) ha all'inizio la grinta dell'amore forte e appassionato, culminante nella struggente estate, stagione in Giappone nostalgica per eccellenza, ma poi la voce, anche nel mix, diventa più distante e ancora più triste, e le tonalità e le strutture dei pezzi si fanno più sconnesse e sofferte, come una memoria che se ne va, e la conclusione nella sua catarsi fa pensare allo stesso tempo ad un addio e a un reincontro, e anche avendole le traduzioni dei testi non le leggerei né consiglierei mai di farlo perché è molto più bella come ve la sto raccontando io.

Anche perché sono educato e non vi parlo del finale reale della storia, visto che alla fine la tracklist continua oltre i limiti del calendario e giunge al vero pezzone.

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